Alcuni passi da "L’INTERPRETAZIONE GIURISDIZIONALE FRA DIRITTO INTERNO E DIRITTO EUROUNITARIO", di Valeria Piccone (dalla newsletter n. 21 di www.europeanrights.eu ):
"...l’interpretazione giurisprudenziale è diventata materia di responsabilità dello Stato per inadempimento del diritto comunitario.
A partire dal caso Kobler e passando per Traghetti del Mediterraneo, la Corte di Giustizia ha precisato, ampliandoli, i confini della responsabilità dello Stato membro, attribuendo rilievo per i danni arrecati ai singoli alla violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado.
In presenza delle condizioni di cui a Francovich, Brasserie du Pecheur e Factortame, e, cioè, qualora la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione ed il danno subito dalle parti lese, scatta la responsabilità dello Stato.
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In Costa/Enel la Corte affermava che la normativa del Trattato, in considerazione della propria originale natura, non può non essere tenuta nel debito conto dalle previsioni nazionali: in questa ottica, solo le previsioni che conferiscano diritti agli individui e che siano sufficientemente chiare, precise ed incondizionate, possono produrre l’effetto di “bloccare” l’applicazione della legge nazionale contrastante.
A guardar bene, tuttavia, questa non appare una necessità, sebbene primazia ed effetto diretto non siano interamente correlati16 : già da Costa/ Enel si evince che il punto cruciale è rappresentato dalla consistency , dalla compatibilità, al punto che una misura nazionale incoerente con il diritto della Comunità e, poi, dell’Unione, non può essere applicata in luogo della EC Law.
Il discorso è, ovviamente, più complesso ogni qualvolta la normativa dell’Unione sancisca diritti fondamentali in favore degli individui per converso non riconosciuti dall’ordinamento interno: in questo caso, infatti, non si tratta semplicemente di rimuovere le “inconsistencies”, ma si tratta, piuttosto, di imporre un particolare peso all’ordinamento nazionale ed è solo a questo punto, quindi, che entra in gioco l’effetto diretto; esso si caratterizza, infatti, come particolare strumento di invocazione del diritto sovranazionale con riguardo a situazioni giuridiche soggettive di vantaggio non contemplate nell’ordinamento interno.
Si pone qui la distinzione, cara agli Avvocati Generali, tra “invocabilité d’exclusion” e “invocabilité de substitution”17; nonostante la Corte non abbia formalmente mai abbracciato tali teorie18 va evidenziato che dalle più recenti pronunzie emerge che la distinzione fra esclusione e sostituzione non è incompatibile con i precedenti della Corte e che si è andata sviluppando una più coerente teoria dell’invocabilità tout court, che può essere applicata anche al di fuori delle direttive, a tutte le norme di rango europeo.
La strada migliore allora per sfatare il mito che i singoli possano invocare l’effetto diretto dinanzi alle Corti nazionali soltanto in presenza di norme vigenti, è quella dell’interpretazione in conformità con la higher norm.
Non v’è dubbio che l’effetto diretto rappresenta un’arma potente che permette di implementare diritti che risultano garantiti esclusivamente dal diritto sovranazionale, nondimeno, quando il diritto è disponibile, pur se in forma embrionale, nell’ordinamento dello Stato membro, può non esserci la necessità di affermarne la consistenza passando attraverso l’effetto diretto.
In particolare, sembrerebbe emergere dalle più recenti pronunzie della Corte di giustizia che quando il risultato sperato può essere ottenuto accantonando gli ostacoli rimanenti nella legge nazionale, ciò può essere fatto mediante il solo principio di primazia, senza far ricorso alla verifica delle condizioni per l’operatività dell’effetto diretto oltre che senza aver riguardo alle procedure interne delle Corti nazionali.
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I giudici nazionali sono tenuti ad interpretare le norme prodotte dal proprio ordinamento in base ai principi del diritto eurounitario e non solo in base alle norme nazionali: l’affermazione della Corte è che l’obbligo di interpretazione conforme delle disposizioni concernenti una materia in cui sia intervenuta una normativa comunitaria riguarda non solo le norme emanate in applicazione della stessa ma anche quelle di origine interna, anteriori o posteriori all’adozione dell’atto comunitario.
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Nella recentissima, già citata, Kukukdeveci la Corte non lascia adito a dubbi: il giudice nazionale rappresenta l’anello centrale della catena interpretativa qualora sia investito di una controversia tra privati; l’obbligo di garantire il rispetto del principio di non discriminazione in base all’età - quale espresso concretamente dalla direttiva 2000/78 ma come estrinsecante un principio generale del diritto comunitario, sovraordinato, orizzontale ed immediatamente applicabile – gli imporrà di disapplicare, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall’esercizio della facoltà di cui dispone, nei casi previsti dall’art 267, secondo comma, TFUE, di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull’interpretazione di tale principio40.
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Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, dai 27 capi di stato e di governo degli Stati membri dell’Unione, è entrato in vigore il 1° dicembre 200941.
Il sistema di integrazione tra ordinamenti che domina lo scenario giuridico europeo ed internazionale degli ultimi anni, governato dal meccanismo di cui agli artt.10, 11 e 117 Cost., pone oggi in una nuova luce il rapporto fra norme esterne e norme interne, rapporto che potremmo definire dotato di valenza costituzionale42 proprio in quanto è nella stessa Costituzione che, con formule diverse e di portata più o meno ampia, si rinviene il frequente richiamo all’osservanza del diritto internazionale quale espresso vincolo dello Stato, come soggetto della Comunità internazionale, nonché fondamento giuridico per l’applicazione interna delle norme sovranazionali.
Solennemente proclamata a Nizza il 7 dicembre del 2000 per opera delle tre istituzioni comunitarie, Parlamento, Commissione e Consiglio – e rivotata a larghissima maggioranza dal Palamento europeo a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione43 è oggi giuridicamente vincolante: essa, per effetto delle modifiche apportate dall’accordo di Lisbona all’art.6 TUE, entra formalmente a far parte delle fonti giuridiche dell’Unione, assumendo lo stesso “valore giuridico” dei Trattati.
Nel deficit di chiarezza derivante soprattutto dal modo e dalla mole delle modifiche apportate ai vecchi trattati emerge questa disposizione in grado di incidere in misura immediata sul sistema delle fonti.
Secondo il nuovo articolo 6 la tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Unione deriverà da tre fonti diverse: la Carta, che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati, i principi generali, che, secondo lo stesso schema del vecchio articolo 6, comprendono i diritti CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed infine, la stessa CEDU.
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La Carta è, al tempo stesso, uno strumento prioritario di indirizzo per l’attività complessiva svolta dall’Unione e per quella degli Stati membri; ai sensi dell’art. 51 primo comma “i suddetti soggetti ne rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze”.
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Limitandosi, in questa sede, ad un breve accenno, va rilevato come un primo problema interpretativo riguardi la sfera di applicabilità della Carta in relazione al diritto interno: il suo art. 51 afferma che “le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”.
Si “attua” il diritto dell’Unione soltanto quando si pone in essere un atto che formalmente ed esplicitamente ha come riferimento il primo (i.e. legge che recepisce una direttiva) o anche, come suggerirebbero alcune sentenze della Corte di giustizia e parte della dottrina, quando sussiste una connessione oggettiva, una intersezione, tra regolazione interna e disciplina sovranazionale (ossia quando la norma interna cade obiettivamente nel cono d’ombra del diritto dell’Unione)?
Può, anche in una questione pacificamente interna, uno Stato ignorare principi ritenuti comuni alle tradizionali costituzionali comuni, ad esempio in materia di non discriminazione? Non possiamo dimenticare che è stata proprio la nostra Corte costituzionale, sin dalla sentenza n.135/2002, a riconoscere alla Carta “il carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei”.
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L’art. 52 della Carta afferma che “Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà Fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”.
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Secondo l’orientamento che pare preferibile, quindi, la CEDU offrirà uno standard minimo di protezione65 che, nell’interpretazione fornita dai giudici, in quanto eurounitariamente orientata attraverso la Carta di Nizza, è atta ad amplificare la propria portata.
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In ogni caso, il giudice è tenuto all’interpretazione in conformità alla Convenzione, ma non gli è consentito disapplicare la norma interna con essa configgente, secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia già nel 1963 con Van Gend en Loos in ordine al fondamento dell’effetto diretto delle norme comunitarie: interpretare conformemente alla CEDU significa applicare la CEDU anche se non è consentito quel controllo diffuso di costituzionalità che deriverebbe dalla disapplicazione della norma convenzionale.
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Non conduce ad un risultato diverso la c.d. “comunitarizzazione” della Convenzione ex art. 6 del Trattato".
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