(da www.servizi-legali.it )
Si, cartellino rosso d'espulsione per gli avvocati "parasubordinati" di altri avvocati. Sono almeno 30.000 (alcuni dicono 50.000) e dovrebbero esser cancellati dagli albi degli avvocati in forza della l. 247/12 di riforma della professione forense.
Ma cominciamo a dar conto, sul tema, dell'interessantissimo l'articolo di Dario Di Vico dal titolo "Il calvario dei giovani avvocati. Senza welfare e senza clienti", pubblicato sul Corriere della sera di ormai diversi anni addietro (è del 22/10/2009). Esordiva Di Vico notando come Tra di loro si definiscono <<gli avvocati senza clienti>>. Sono legali che lavorano in grandi e medi studi professionali, hanno un solo committente ma non lo status di dipendenti. Sono dei semplici prestatori d'opera iscritti all'Ordine, lavoratori autonomi con partita IVA. Ogni mese emettono una fattura e vengono pagati in base ad essa ma, visto che la legge vieta di essere dipendenti ed essere contemporaneamente iscritti a un albo, lavorano in quello che Giuseppe Sileci, presidente [allora] dell'AIGA, denunciava come un <<vuoto normativo>>. Una sommaria mappa della professione di avvocato porta a evidenziare che due sono le tipologie più diffuse, il socio di uno studio e il professionista che lavora da solo. Il tertium genus è rappresentato dai nostri avvocati senza alcuna garanzia del posto di lavoro e senza welfare. Non timbrano il cartellino ma non hanno nè il TFR nè le garanzie dell'articolo 18. ... La dimostrazione sta nei dati elaborati dalla Cassa Forense: i legali sono obbligati a comunicare volumi d'affari e redditi (detratte le spese), ma per migliaia di avvocati le due voci coincidono perchè si tratta di lavoratori con partita IVA che non hanno spese in quanto gli studi forniscono loro stanza, telefono e, qualche volta, la segretaria ... Su di loro pende però la spada di Damocle della cancellazione dall'Albo.
L'articolo di Di Vico confermava la necessità di riscrivere il testo di riforma dell'avvocatura che era già all'esame del Senato, inserendovi giuste norme per la disciplina del lavoro sostanzialmente subordinato delle decine di migliaia di avvocati-dipendenti d'altri avvocati: norme da esplicitare nella legge professionale, non, dunque, norme deontologiche che sarebbero lasciate a discrezionalissimi interventi normativi del CNF.
Si deve partire dalla conoscenza della attuale organizzazione degli studi legali italiani. Secondo vecchi dati (che sicuramente oggi andrebbero aggiornati nel senso d'una ben maggiore presenza di avvocati sostanzialmente subordinati) della Associazione degli studi legali associati (dati non contestati e riportati anche dal sito del C.N.F., già in una vecchia rassegna stampa del 27/10/2009), l'organizzazione degli studi legali italiani è di quattro tipi: nel 23% dei casi lo studio coincide col singolo professionista; nel 19% dei casi lo studio consiste in un titolare al quale sono affiancati altri avvocati (ed è di questa forma di affiancamento -che non comporta la divisione dei costi di gestione ma integra subordinazione o parasubordinazione- che intendo parlare in questo articolo); nel 31% dei casi lo studio consiste in più professionisti che si dividono i costi di gestione; nel 27% dei casi trattasi di vero studio associato.
Ebbene, se questa è la realtà italiana, nella legge di riforma della professione d'avvocato occorreva prevedere norme che, con riferimento a quel 19% degli studi legali italiani cui s'è appena accennato, salvaguardino tanto l' "avvocato titolare" quanto il suo avvocato-collaboratore sostanzialmente subordinato; occorreva, inoltre, prevedere norme che regolassero i conflitti e regolamentassero la concorrenza tra titolare e avvocato subordinato, magari disegnando un contratto professionale adeguato al rapporto che, per esempio, introduca un periodo di preavviso in caso di fine della collaborazione professionale.
Riletto, a distanza di anni, l'articolo di Di Vico, subito mi è venuta in mente la discrasia tra l'ormai pacifica esclusione degli "avvocati dipendenti da altri avvocati" dal novero dei soggetti passivi dell'IRAP da una parte e, dall'altra, la testarda (e silenziosa) programmazione, ad opera della legge di riforma della professione di avvocato, n. 247/2012, d'una sorta di "pulizia etnica" degli albi forensi attraverso la espulsione dagli albi di migliaia di quegli stessi "avvocati dipendenti di altri avvocati". A dire il vero subito dopo m'è venuto in mente che forse si vorrebbe adottare la solita soluzione (all'italiana) di continuare a far finta di niente, innanzi alla indiscutibile carenza di indipendenza degli "avvocati dipendenti da altri avvocati". Ma scaccio tale pensiero antiitaliano.
Ebbene:
Già con sentenza n. 21989 del 16/10/09 la sezione tributaria della Cassazione ha confermato che "in tema di IRAP la iscrizione ad un ordine professionale protetto non comporta la esenzione dall'imposta dei soggetti esercenti professioni intellettuali, ma non costituisce neppure presupposto sufficiente ai fini dell'assoggettamento ad imposizione, occorrendo, alla stregua delle modifiche introdotte dal d.lgs. 137 del 1998 e dal d.lgs. n. 446 del 1997, che l'attività del professionista sia autonomamente organizzata, cioè presenti un contesto organizzativo anche minimo, derivante dall'impiego di capitale e lavoro altrui, che potenzi l'attività intellettuale del singolo: il valore aggiunto che costituisce oggetto della imposizione deve infatti derivare dal supporto fornito alle attività del professionista dalla presenza della struttura riferibile alla composizione di fattori produttivi, funzionale all'attività del titolare (v ex plurimis Cass. 3675/07, cASS. 5747 DEL 2007)".
La Cassazione ha, dunque, ulteriormente (dopo Cass. 18973 del 31/8/2009) confermato il proprio ormai stabile indirizzo per cui un avvocato non è soggetto passivo IRAP se svolge attività non autonomamente organizzata (vedasi, da ultimo, Cass., sesta sezione, ordinanza n. 8809 / 2013, depositata il 10 aprile 2013, secondo la quale non può essere sottoposto al pagamento dell'IRAP l'avvocato che spenda per corrispettivi a terzi, beni mobili e beni immobili euro 4.088 in un anno, poichè tale cifra "non appare sufficiente a determinare l'esistenza di una struttura organizzata che possa cagionare un significativo maggior reddito del contribuente").
Se, dunque, il Fisco deve riconoscere la categoria degli avvocati esenti dall'IRAP in quanto lavoranti per altri avvocati, servendosi della loro organizzazione (segreteria ecc...), perchè poi la legge professionale forense dovrebbe penalizzare queste decine di migliaia di avvocati (probabilmente ormai più di 50.000) che fatturano regolarmente al loro sostanziale datore di lavoro nell'ambito d'un rapporto che, secondo i parametri giuslavoristici, appare di subordinazione o parasubordinazione?
Perchè, addirittura, la c.d. legge di riforma dell'avvocatura semplicemente ignora il fenomeno, in crescita da anni e ormai di enorme rilevanza numerica, dell'avvocato-dipendente da altro avvocato (figura che era normale fino a prima del fascismo e oggi è senza problemi riconosciuta nei principali Stati dell'Unione Europea, ad esempio in Francia, Germania e Inghilterra)?
Perchè la medesima legge di riforma dell'avvocatura, ignorandolo, spinge a mantenere in penombra il fenomeno sociale dell' "avvocato dipendente da altro avvocato", attraverso la minaccia silenziosa della cancellazione dall'albo per carenza del requisito dell'indipendenza?
Perchè, non si vuol promuovere l'emersione di situazioni in cui un avvocato-salariato lavora in mancanza totale o quasi di strumenti organizzativi e strutture, guadagna prevalentemente per compensi fatturati allo stesso pseudocliente (l'avvocato che è suo sostanziale datore di lavoro in un rapporto di supremazia gererchica, magari mistificato all'interno d'una para-associazione professionale), è tenuto a orari di lavoro e gode di ferie stabilite dal "collega" datore di lavoro?
Perchè (come chiedeva Ester Perifano, da segretario dell'Associazione Nazionale Forense, già in un articolo su Italia Oggi del lontano 22/10/09, dal significativo titolo "Strada in salita", dedicato all'iter parlamentare della riforma forense) la legge di riforma della professione -che ora, nonostante le critiche dell'Antitrust, è stata approvata con tanta fretta il 21 dicembre 2012- non prende atto della realtà della nostra professione e testardamente vuol "continuare ad ignorare le decine di migliaia di giovani avvocati che negli ultimi anni hanno affollato i nostri albi, che contano ormai oltre 200 mila iscritti, e sono entrati nei nostri studi, spesso sottopagati e, forse, sfruttati ?"
In realtà bisogna riconoscere coraggio e onestà intellettuale a chi da anni afferma che in molti casi il ruolo dei giovani avvocati all'interno degli studi, soprattutto per le donne, è quello del lavoratore subordinato; che tutto ciò va regolato e non demonizzato; che vanno introdotte le tutele giuste e accantonati gli anatemi di incompatibilità per carenza di indipendenza, derivanti da una idea ottocentesca della professione liberale, se non si vuole che quei dominus/datori di lavoro possano serenamente continuare a fingere di trattare alla pari colleghi che, nei fatti, sono veri e propri dipendenti; che -infine- negare la possibilità di costituire società di capitali per l'esercizio della professione forense con soci di solo capitale serve solo a tutelare chi ha una organizzazione professionale vecchia, inacape di reggere alla concorrenza, ma invece capacissima di sfruttare solide rendite di posizione.
Mi pare indiscutibile che la legge di riforma della professione forense n. 247/12 è "culturalmente arretrata", non ha in realtà alcuna chance di aiutare gli avvocati italiani ad uscire dalla loro specialissima crisi economica e di ruolo.
Io faccio una scommessa: non basterà ai conservatori-corporativi d'ogni parte politica avere dalla propria parte tanti (non più tantissimi, come fu nella passata legislatura che partorì la pseudoriforma forense) parlamentari avvocati per mantenere in vita la l. 247/12. E' una legge troppo "culturalmente arretrata" e nemmeno si riuscirà ad adottare i regolamenti essenziali per la sua attuazione.
Domando, infine, a chi non ha buona memoria:
l'OUA chiedeva che già nella Finanziaria 2010 fossero previsti interventi per i giovani avvocati; l'AIGA denunciava già anni addietro il vuoto normativo in cui lavorano gli avvocati dipendenti di altri avvocati. Va benissimo. Ma allora, perchè OUA e AIGA, che hanno dato l'OK alla approvazione in Parlamento della l. 247/12? Perchè non hanno imposto che la riforma forense escludesse, soprattutto (ma non solo) per quei "giovani avvocati dipendenti di altri avvocati", la cancellazione dall'albo per carenza del requisito della indipendenza (requisito tanto mitizzato quanto impalpabile e fonte d'arbitrio)? Perchè l'AIGA e l'OUA non hanno imposto che nella legge di riforma della professione forense fosse riconosciuta l' "avvocatura dipendente" che invece, rebus sic stantibus, dovrà semplicemente essere cancellata dagli Albi degli avvocati italiani?
COERENZA!!!!
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