Avvocati Part Time

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... e perchè l'eccessiva specializzazione si addice agli insetti

PNRR: elenchi di professionisti, esperti, personale di alta specializzazione. Zero incompatibilità

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Il Decr. 14 ottobre 2021 della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Funzione Pubblica (GU n. 268 del 2021) disciplina le modalità per l'istituzione degli elenchi dei professionisti e del personale in possesso di un'alta specializzazione per il PNRR.

Per iscriversi agli elenchi del Portale sono richiesti i seguenti requisiti:

- cittadinanza UE ai sensi dell'art. 38 D.Lgs.30 marzo 2001, n. 165, limitatamente alle assunzioni a tempo determinato;

- godimento dei diritti civili e politici;

- non essere in quiescenza;

- per i professionisti è richiesta, inoltre, l'iscrizione all'albo, collegio o ordine professionale comunque denominato, ove previsto, ovvero il possesso delle attestazioni o certificazioni di cui alla L. 14 gennaio 2013, n. 4;

- per gli esperti è richiesta la comprovata esperienza almeno quinquennale;

- per il personale di alta specializzazione sono richiesti, inoltre, il possesso della laurea magistrale o specialistica, il possesso del dottorato di ricerca o un'esperienza professionale continuativa almeno triennale, maturata presso enti pubblici nazionali ovvero presso organismi internazionali o dell'Unione europea;

- posizione regolare nei riguardi degli obblighi militari laddove previsti per legge.

Importantissimo il fatto che l'art. 31 del D.L. n. 152/2021 incentivi il reclutamento delle migliori professionalità per l'attuazione dei progetti del PNRR disponendo che per i professionisti assunti a tempo determinato dalle pubbliche amministrazioni per l'attuazione del PNRR non è richiesta la cancellazione dall'albo, collegio o ordine professionale di appartenenza e che l'eventuale assunzione non consente in nessun caso la cancellazione d'ufficio.

Inoltre, i professionisti assunti dalle pubbliche amministrazioni possono mantenere l'iscrizione, ove presente, ai rispettivi regimi previdenziali obbligatori, ed è escluso qualsiasi onere a loro carico per la ricongiunzione dei periodi di lavoro prestati nel caso in cui non optino per il mantenimento all'iscrizione della cassa previdenziale di appartenenza.

Per chiara dimostrazione dell'irragionevole disparità di trattamento e discriminazione degli abilitati alla professione forense che sono impiegati a tempo indeterminato e in part time nella pubblica amministrazione, i quali continuano ad essere sottoposti ad una assurda incompatibilità all'esercizio della professione forense, vedi Corte cost. 189/2001.


Ultimo aggiornamento Mercoledì 24 Novembre 2021 09:34
 

Summa argomenti contro incompatibilità sproporzionate per la professione forense

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QUESTO LO SVILUPPO CRONOLOGICO DELLE REGOLE SULL'INCOMPATIBILITA' TRA IMPIEGO PUBBLICO E PROFESSIONE DI AVVOCATO.

Il regio decreto 1578/33, articolo 3, QUALIFICAVA la professione d'avvocato incompatibile con l'impiego pubblico.

La legge 662/96 (articolo 1, commi da 56 a 65, e in particolare, il comma 56bis) abrogò tale incompatibilità per la sola ipotesi in cui un preesistente rapporto di impiego pubblico (non come dirigente bensì come impiegato) full time fosse trasformato in un part time molto ridotto. Stabilì che l'impiegato pubblico già a full time (abilitato all'esercizio della professione d'avvocato) aveva diritto ad ottenere l'iscrizione in un albo d'avvocati e svolgere anche la professione (a meno che la pubblica amministrazione d'appartenenza avesse riscontrato un'incompatibilità in concreto tra lavoro svolto nella pubblica amministrazione e la professione d'avvocato), se avesse trasformato il rapporto di lavoro full time in corso in un rapporto a part time molto ridotto e cioè tra il 30% e il 50% dell'orario normale.

La autorizzazione delle pubbliche amministrazioni ai propri dipendenti in part time a fare anche l'avvocato poneva comunque sempre il limite (già posto dal decreto legge 79/97) del divieto di assumere patrocinio nelle controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione.

Per il massimo affidamento ingenerato dalla sentenza della Corte costituzionale 189/01 molti impiegati pubblici ridussero (talora oltre il 50% e sino al 30%) la percentuale del loro lavoro part time (lavoravano,  quindi, come impiegati un solo giorno di lavoro a settimana). Il 4/6/2001 l'On. Francesco Bonito presentò il progetto di legge che sarebbe poi diventato l. 339/03. La sentenza della Corte costituzionale 189/01 porta la data 4-11 giugno 2001.

Però con legge 339/03 venne reintrodotta l'incompatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione forense. Ciò avvenne nonostante il parere contrario dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che giudicava almeno sproporzionata la reintroduzione dell'estrema misura dell'incompatibilità (vedi segnalazioni dell'Antitrust AS223 del 12/12/2001, AS602 del 18/9/2009 e AS974 del 9/8/2012).

La legge 339/03 stabilì che se entro 36 mesi gli avvocati che avevano ottenuto l'iscrizione all'albo in base alla legge 662/96, art. 1, comma 56 e seguenti, non avessero optato per l'esclusivo esercizio della professione forense, gli stessi sarebbero stati cancellati dall'albo.

La Corte costituzionale, con sentenza 166/12, dichiarò non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Cassazione e, quindi, costituzionalmente legittima la legge 339/03 in quanto non manifestamente irrazionale e possibile parto di un legislatore che cambia idea.

Vai al link e inoltre considera i seguenti argomenti per l'abrogazione dell'incompatibilità tra professione forense e impiego pubblico a part time ridotto:

1) Avvocati dipendenti di studi legali? Sarebbe la peggiore delle incompatibilità a meno che questa novità sia una semplice conseguenza di un più ampio intervento in tema di incompatibilità nelle professioni e cioè a meno che, come da tempo propone l'Antitrust, non si giunga ad eliminare sia l’incompatibilità dell’esercizio di una attività professionale in forma dipendente, sia il contemporaneo esercizio di più attività professionali libere, sia il contemporaneo esercizio di una attività professionale libera e di una attività in qualità di dipendente.

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2) L'art. 18, lettera d, della legge n. 247/2012 stabilisce che la professione di avvocato è incompatibile con qualunque attività di lavoro subordinato, anche se con orario di lavoro limitato. Dunque, mentre a causa della sopra citata disposizione di legge e della legge 339/2003 non può più fare l'avvocato chi sia usciere di un ministero e come tale lavori a part time verticale al 30% (e in concreto sia impegnato un solo giorno  settimana come impiegato pubblico), può invece fare l'avvocato chi rivesta tutta una serie di posizioni di assoluto vertice in enti e consorzi pubblici e in società a capitale interamente pubblico (art. 18, lettera c, ultimo periodo, della legge 247/2012).

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3) La l. 339/2003 ha travolto del tutto il diritto quesito dei dipendenti pubblici che, appunto per poter fare anche l'avvocato (come aveva consentito la legge 23 dicembre 1996, n. 662, articolo 1, commi 56, 56-bis e 57) avevano trasformato anni addietro il loro rapporto di lavoro pubblico in un rapporto a part time particolarmente ridotto: la l. 339/2003 (confermata dalla l. 247/2012) ha imposto la cancellazione dagli albi di questi avvocati.  Si torni in Corte costituzionale o il legislatore ci ripensi !

Per capire come mai sia giunto il momento di implemetare le professionalità interne alle pubbliche amministrazioni reintroducendo la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione di avvocato si legga la sentenza della Cassazione, sez. 5, n. 28684/2018. Tale sentenza chiarisce quando l'Agenzia delle entrate possa farsi assistere da avvocati del libero Foro ma, ai punti da 6 a 14, dà conto delle attuali gravi difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano per poter ricorrere agli avvocati del libero Foro sia nei gradi di merito che nel giudizio in Cassazione: ne risulta l'opportunità politica della reintroduzione della compatibilità suddetta, ciò seguendo le argomentazioni di Corte cost. 189/2001.

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4) L'unico tipo di rapporto di lavoro subordinato che secondo la Corte di giustizia è in grado di compromettere la necessaria indipendenza d'avvocato è quello in cui il datore di lavoro dell'avvocato sia anche il suo cliente. Vedasi Corte di giustizia, terza sezione, sentenza 10/9/2009, in causa C-97/07 P (Akzo Chemicals contro Commissione).

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5) Il CSM, col suo Parere sullo schema di decreto legislativo recante la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché la disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57 (reso con Delibera consiliare del 15 giugno 2017) impone di riconsiderare la questione della proporzionalità o meno dell'incompatibilità sancita dalla legge professionale forense tra impiego pubblico a part time ridotto e professione di avvocato.

Infatti, a pag. 42 del detto parere del CSM si riconosce che "proprio gli avvocati sono la categoria che, presuntivamente, può dar luogo a maggiori problemi di incompatibilità, potendo gli stessi legittimamente esercitare la professione nello stesso distretto ed in circondari limitrofi (cfr. art. 5 dello schema)".

E a pag 44 del medesimo parere il CSM propone in tema di "IMPEGNO PROFESSIONALE ESIGIBILE DALLA MAGISTRATURA ONORARIA:

- sostituire, nei termini che seguono, il secondo periodo del comma 3 dell’art. 1 della legge delega:

“Al fine di assicurare tale compatibilità, a ciascun magistrato onorario non può essere richiesto un complessivo impegno lavorativo superiore a tre giorni di lavoro a settimana, comprensivo della partecipazione a non più di due udienze a settimana”.

ORBENE, SE COSI' LA PENSA IL CSM, E' EVIDENTE CHE DOVREBBE CONSENTIRSI AD UN AVVOCATO DI FARE L'IMPIEGATO PUBBLICO A PART TIME RIDOTTO (CON RISCHIO CERTO MINORE PER L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA DI QUELLO CHE L'ORDINAMENTO ACCETTA DI CORRERE OVE AMMETTE CHE UN AVVOCATO FACCIA ANCHE IL MAGISTRATO ONORARIO).

IN ALTRI TERMINI BISOGNA RICONSIDERARE LA QUESTIONE (POSTA DALLA SENTENZA JAKUBOWSKA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA CHE DECISE LA CAUSA C-225/09) DELLA PROPORZIONALITA' O MENO DELL'INCOMPATIBILITA' CHE LA LEGGE FORENSE PONE TRA AVVOCATURA E IMPIEGO PUBBLICO A PART TIME RIDOTTO).

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6) La sentenza Piringer della Corte di giustizia del 9/3/2017 (causa C-342/15), affronta la questione della legittimità di una normativa nazionale che riserva ai notai l'attività di autenticazione delle firme apposte sui documenti necessari per la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari ed esclude, di conseguenza, la possibilità per gli avvocati di esercitare tale attività negli stati membri che applicano una simile riserva.

La sentenza è interessante, per gli avvocati, anche sotto un diverso aspetto: per come argomenta ai punti da 48 a 71, consente di ritenere disapplicabile -per violazione della proporzionalità nel perseguire un obiettivo che pur costituisce una ragione imperativa di interesse generale (vedi soprattutto i punti 62 e 63 della sentenza in relazione all'ampia motivazione della sentenza della Corte costituzionale 189/01) l'art. 18 della legge 247/2012 nella parte in cui stabilisce l'incompatibilità tra iscrizione all'albo forense e impiego pubblico a part time ridotto. NON E' D'OSTACOLO LA SENTENZA JAKUBOWSKA CHE DICHIARO' ESPRESSAMENTE DI NON AVERE ELEMENTI PER GIUDICARE IN ORDINE ALLA QUESTIONE DELLA PROPORZIONALITA' DELLA REGOLAZIONE (CHE ORA VIENE RIBADITA ESSERE LA QUESTIONE FONDAMENTALE).

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7) Mi domando: perchè il lavoratore dipendente "giurista di impresa" può essere iscritto all'albo forense mentre il lavoratore dipendente pubblico a parte time ridotto non può?

Dalla newsletter del Consiglio Nazionale Forense dell'1/12/2016:

Il COA di Massa Carrara pone il seguente quesito: “Se sussista l’incompatibilità tra l’iscrizione all’Albo degli Avvocati e l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato avente ad oggetto la consulenza e l’assistenza legale stragiudiziale, posto che l’art. 2 comma 6 della L. 247/2012 stabilisce che ‘…è comunque consentita l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata, aventi ad oggetto la consulenza e l’assistenza legale stragiudiziale, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro o del soggetto in favore del quale l’opera viene prestata’, e, l’art. 18 comma unico lett. d) sancisce che ‘la professione di avvocato è incompatibile: …d) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”.

La risposta è nei seguenti termini:

L’art. 2 c. 6, della L. n. 247/2012, recepisce all’interno della disciplina delle professioni di avvocato la figura del “giurista d’impresa”, che pertanto non rientra nel regime delle incompatibilità di cui all’art. 18 della stessa legge.

Consiglio nazionale forense (rel. Salazar), 22 giugno 2016, n. 77

Quesito n. 210, COA di Massa Carrara

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8) Il 24/6/2015 s'è tenuta l'audizione del Predente dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Prof. Giovanni Pitruzzella, innanzi alle Commissioni riunite Finaze e Attività produttive della Camera, nell'ambito dell'istruttoria legislativa sul disegno di legge C.3012 recante "Legge annuale per il mercato e la concorrenza".

Pitruzzella ha sottolineato, trattando delle improcrastinabili aperture alla concorrenza nei servizi professionali, come la professione di avvocato, più delle altre, sia ancora, troppo regolata in senso anticoncorrenziale, specie in materia di incompatibilità.

Si legge, tra l'altro, a pag. 14 dell'intervento del Presidente dell'Antitrust: "Infine, l’Autorità ha evidenziato -auspicandone il superamento– la particolare restrittività del regime di incompatibilità previsto dalla legge forense, laddove la norma prevede che la professione di avvocato sia incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività di lavoro autonomo o dipendente part-time, nonché con l’assunzione di cariche sociali. Si tratta di limitazioni sproporzionate, atteso che eventuali situazioni di conflitto di interessi derivanti dallo svolgimento di altre attività possono essere risolte mediante la previsione di specifici obblighi di astensione dallo svolgimento delle attività in conflitto.

Nel valutare l’opportunità di un più deciso intervento di liberalizzazione nel settore delle professioni –e con specifico riferimento alla professione forense, che più di altre risulta caratterizzata dal permanere di vincoli al pieno dispiegarsi delle dinamiche concorrenziali– non deve dimenticarsi che i processi di liberalizzazione dei servizi professionali sono suscettibili di avere un notevole impatto sul benessere economico collettivo, sulla crescita e sulla competitività."

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9) PRIMO FATTO NUOVO: l'inserimento, ad opera del maxiemendamento governativo al ddl di conversione in legge del d.l. 90/2014, del comma 1-bis all'art. 2 del decreto legge.  Prevede il nuovo comma 1-bis: "È fatto obbligo per le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 di affidare la convenzione di negoziazione alla propria avvocatura, ove presente". L'obbligatorio affidamento delle convenzioni di negoziazione alle avvocature interne, ove esistenti, rende palese che, nei frequentissimi casi nei quali una "propria avvocatura" non esista, occorre assolutamente evitare che le pubbliche amministrazioni (che in tema di negoziazione assistita non ricorreranno di frequente alla Avvocatura generale dello Stato) possano candidamente affidarsi, per farsi assistere nell'enorme mole di procedure di negoziazione assistita che si troveranno presto a dover gestire, alla preparazione professionale "settoriale" di (interessati) avvocati esterni.

SECONDO FATTO NUOVO: La chiara presa di posizione dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che, con segnalazione AS1137 del 4/7/2014, indirizzata al Presidente della Repubblica, al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro per lo sviluppo economico (segnalazione pubblicata sul Bollettino dell'Autorità n. 27 del 7/7/2014),  formula essenziali "PROPOSTE DI RIFORMA CONCORRENZIALE AI FINI DELLA LEGGE ANNUALE PER IL MERCATO E LA CONCORRENZA ANNO 2014". Ha evidenziato l'Antitrust, nella detta segnalazione AS1137, che "la disciplina dell’ordinamento forense prevede un regime di incompatibilità molto stringente con lo svolgimento di qualsiasi attività di lavoro autonomo o dipendente part-time, nonché con l’assunzione di cariche sociali. Inoltre, viene limitata l’iscrizione degli avvocati negli albi professionali diversi da quelli espressamente indicati (articolo 18). Si tratta di limitazioni sproporzionate atteso che eventuali situazioni di conflitto di interessi derivanti dallo svolgimento di altre attività possono essere risolte mediante la previsione di specifici obblighi di astensione dallo svolgimento delle attività in conflitto".

Partiamo dall'analisi dell'articolo 41 del decreto legge 90/2014 "Misure per il contrasto all'abuso del processo". Contro l'abuso del processo ammiistrativo esso introduce sia un aggravamento della responsabilità verso controparte vittoriosa, sia una vera e propria sanzione pecuniaria a carico di parte soccombente. Vuol punire soprattutto chi avvia cause manifestamente dilatorie, o per ragioni dilatorie resiste in giudizio, e perciò attribuisce al giudice il potere di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma "equitativamente determinata" a favore di quella vincente quando la decisione è fondata su ragioni, in fatto o in diritto, che siano "manifeste" (lettera a) e -solo in materia di appalti di cui agli artt. 119, lettera a) e 120 del codice del processo amministrativo- commina una vera e propria sanzione pecuniaria, potenzialmente altissima (lettera b). Recita l'art. 41 del d.l. 90/2014, come modificato dalla legge di conversione 114/2014:

"Art. 41  (Misure per il contrasto all'abuso del processo)

In vigore dal 19 agosto 2014

1.  All'articolo 26 dell'allegato 1 (Codice del processo amministrativo) del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, sono apportate le seguenti modificazioni:

a)  al comma 1, in fine, è aggiunto il seguente periodo: “In ogni caso, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati.”;

b)  al comma 2, dopo il primo periodo è inserito il seguente: “Nelle controversie in materia di appalti di cui agli articoli 119, lettera a), e 120 l'importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all'uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite.”.

Quindi la novità è notevole, rispetto al previgente quadro per cui erano solo previsti:

- la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte vittoriosa (art. 91 cpc);

- la condanna alle spese per singoli atti in caso di violazione del dovere di lealtà e probità (art. 92 cpc);

- la condanna al risarcimento dei danni (sia in sentenza sia in provvedimento d'urgenza) quando sia mancata la normale prudenza (art. 96 cpc);

- la responsabilità contabile quando la pubblica amministrazione soccombente si sia difesa creando ostacoli solo per guadagnare tempo e rinviare l'adempimento di un dovere.

Ebbene, occorre certamente evitare che la giusta previsione, nel d.l. 90/2014, di una possibile condanna al pagamento alla controparte di una somma equitativamente determinata o al pagamento di una sanzione pecuniaria a carico della parte processuale che abbia commesso "abuso del processo", trascurando ragioni manifeste di soccombenza che consigliavano di non agire o di non resistere in giudizio, si risolva in pesanti esborsi a carico di pubbliche amministrazioni "processualmente temerarie".

Come fare?  Bisogna strutturare gli organici delle pubbliche amministrazioni in modo che un separato corpo di avvocati del libero Foro, con rapporto di impiego pubblico a part time ridotto (come quello introdotto con l. 662/1996, art. 1, commi da 56 a 65, e poi abrogato dalla leggina 339/03), assicuri la indispensabile professionalità legale interna (con sufficiente garanzia di autonomia dalla gerachia burocratica). Occorre assolutamente evitare che le pubbliche amministrazioni che non ricorrono alla Avvocatura generale dello Stato o non hanno già una efficiente Avvocatura interna possano candidamente affidarsi alla preparazione professionale "settoriale" di (interessati) avvocati esterni che consiglino di agire o di resistere in giudizio. La posta in palio, coll'art. 41 del d.l. 90/2014, è diventata alta: in materia di appalti fino all'1% del valore del contratto.

Già era scandaloso che le pubbliche amministrazioni si rivolgessero ad avvocati del libero Foro per consulenze sul cosa la legge consenta o imponga o vieti loro di fare. Ancor più scandaloso, e assolutamente da evitare, è che si giunga ora a far gravare sulle casse pubbliche le eventuali condanne a pagamento di somme, "equitativamente determinate", alla controparte vittoriosa o di sanzioni pecuniarie (potenzialmente altissime)  dal giudice amministrativo per responsabilità da "abuso del processo" da parte della pubblica amministrazione ricorrente o resistente (si legga, di Aurelio Laino, l'articolo intitolato “Sussiste il danno erariale anche per sanzioni pecuniarie a un ente pubblico da devolversi all'Erario”, in Diritto e pratica amministrativa, n. 4, 2014, pp. 81-84).

Innanzitutto bisognerebbe, nel convertire in legge il d.l. 90/2014, consentire (seguendo l'insegnamento della sentenza della Corte costituzionale 189/2001) il doppio lavoro (avvocato del libero Foro e impiegato pubblico a part time ridotto) ai dipendenti pubblici che -già a part time e già iscritti agli albi in forza dell'art. 1, commi 56 e ss. della l. 662/96- sono stati cancellati dagli albi forensi a causa della l. 339/03 e spesso sono ora tornati al full time, per una assurda presunzione di incompatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e professione forense (incompatibilità che, tra l'altro, è pure all'esame della Corte europea dei diritti dell'uomo). Inoltre, bisognerebbe affiancare a tali avvocati-part-time "ripescati", tanti nuovi colleghi avvocati, selezionati con concorso pubblico, da bandire presto, al quale dovrebbero essere ammessi non solo avvocati del libero Foro ma anche i tantissimi impiegati pubblici a full time che, essendo abilitati all'esercizio della professione forense, vogliano trasformare il loro contratto full time in un part time ridotto (tra il 30% e il 50%) ed essere iscritti negli albi forensi. Tutti gli avvocati part time delle pubbliche amministrazioni dovrebbero confluire in un ruolo separato, con indispensabili garanzie di indipendenza dalla gerarchia burocratica di inquadramento.

Il "ripescaggio" dei "vecchi avvocati part time" (quelli cancellati dagli albi in forza della l. 339/03) che son tornati al tempo pieno sarebbe una fonte di risparmio considerevole per le casse pubbliche. Pure considerevole sarebbe il risparmio che deriverebbe dalla possibilità di trasformazione del contratto di lavoro full time in un part time particolarmente ridotto che si riconoscesse ai tanti impiegati della pubblica amministrazione che sono abilitati all'esercizio della professione forense e che (come insegna Corte cost. 189/01) molto più utili sarebbero al datore di lavoro pubblico se potessero iscriversi negli albi forensi e contemporaneamente portare all'interno delle amministrazioni la professionalità vera.

Si consideri: il part time che nelle pubbliche amministrazioni si deve incentivare non è quello finalizzato solo a far risparmiare le amministrazioni nè quello teso a creare solo spazio per nuovi assunti. Da incentivare seriamente è, invece, il part time finalizzato a immettere nell'organico della pubblica amministrazione (che spende troppo in consulenze legali esterne con le quali, assurdamente, chiede ad avvocati del libero Foro di spiegarle quali sono le regole giuridiche del suo agire) professionalità legali vere, formate dalla quotidiana frequenza delle aule di giustizia e non da inutili corsi di formazione (che servono solo a far guadagnare qualcuno).

--- LA NECESSITA' DEL CAMBIAMENTO NEL SENSO DELLA APERTURA DEGLI ORGANICI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI AGLI AVVOCATI DEL LIBERO FORO. L'IMPORTANZA DELL'INSEGNAMENTO DELLA SENTENZA 189/2001 DELLA CORTE COSTITUZIONALE.

La Corte dei conti, Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo, con deliberazione n. 7 del 16 aprile 2014, afferma che quando le esigenze di consulenze esterne della Pubblica Amministrazione durano da troppi anni, la P.A. ha l'obbligo di ripensare e rimodulare i fabbisogni di personale in organico. Si legge, tra l'altro, nella deliberazione della Corte dei conti: "ove le esigenze dell’amministrazione siano qualificabili come perduranti, la giurisprudenza della Corte ha indicato che l’amministrazione stessa ha l’onere di trovare idonee soluzioni, in termini di programmazione dei fabbisogni di personale, nonché in termini di aggiornamento e formazione dei profili professionali interni (delib. 3/2014, 13/2013, 26/2012 e 24/2011). Conclusivamente, il Collegio ritiene che, non essendovi motivi per discostarsi dall’orientamento assunto in materia dalla Sezione, l’atto in esame, in quanto carente dei requisiti di temporaneità e straordinarietà della prestazione, non può essere ammesso al visto e alla registrazione."

E' evidente che istituire un ruolo separato dei dipendenti pubblici a part time che siano anche avvocati nel libero Foro sarebbe la maniera migliore per ovviare alle spese pazze per consulenze legali (spesso fasulle) di tante amministrazioni pubbliche. Toglierebbe di mezzo la scusa (spesso accampata da amministratori che vogliono favorire gli amici avvocati) che, data la carenza di specifiche professionalità legali nell'organico della pubblica amministrazione, non c'è alternativa all'affidamento esterno delle costose consulenze legali.  L'uovo di Colombo (vedasi Corte cost. 189/01) è il definitivo sdoganamento degli avvocati - dipendenti pubblici a part time.

Si parla tanto di anticorruzione. Sul tema mi pare che avevano ragione da vendere i professori Cassese, Pizzorno, e Arcidiacono quando (chiamati a comporre il c.d. “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione”, istituito con decreto n. 211 del 30.9.1996 dall’allora Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante) scrivevano: «Una delle ragioni principali della corruzione è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».

E per superare le prevedibili reazioni della corporazione degli avvocati alla reintroduzione della compatibilità tra professione di avvocato e impiego pubblico a part time ridotto si potrà replicare che:

a) nella crisi dell'Avvocatura è ottima prospettiva per tanti avvocati, oggi in grave difficoltà economica , quella di concorrere a far parte (come dipendente pubblico a part time ridotto) d'una nuova e propulsiva Avvocatura part time della pubblica amministrazione. Si consideri che gli avvocati con redditi bassi cominciano a cancellarsi dagli albi. Prima dell'entrata in vigore della riforma forense (legge 247/2012), che all'articolo 21 ha previsto l'iscrizione obbligatoria per tutti, i legali con redditi inferiori ai 10.300 euro e quindi non iscritti alla Cassa erano in 56 mila. A fine luglio 2014 erano già scesi 48 mila. Numeri ancora provvisori se si considera che, dal 21 agosto 2014, è partita l'attività di iscrizione d'ufficio da parte di Cassa Forense;

b) non è giustificabile una estensione delle incompatibilità oltre il limite della ragionevole preoccupazione della prevenzione di seri conflitti di interessi. Altrimenti, in nome della indipendenza dell'avvocato (necessaria nei limiti in cui è funzionale alla miglior difesa del cliente) e in nome della prevenzione dei conflitti di interessi, si realizza solo una regolazione "sproporzionata" e sostanzialmente corporativa e anticoncorrenziale, sia della professione di avvocato che della pubblica amministrazione.

Occorre riconoscere, in base all'esame del diritto positivo, che il Legislatore italiano reputa in via generale che gli avvocati in attività nel c.d. libero Foro possono e devono esser coinvolti a pieno nelle attività pubblicistiche, anche le più delicate, senza timore che ne possano derivare conflitti di interesse (o accaparramenti di clientela o, comunque, lesione del bene dell'autonomia e dell livello di indipendenza necessario per svolgere sia l'attività d'avvocato che quella pubblicistica) che non siano gestibili con ordinarie misure disciplinari adottabili dalla stessa pubblica amministrazione nei confronti del suo dipendente part time che sia anche avvocato, e/o adottabili dall'Ordine degli avvocati al quale l'avvocato part time sia iscritto.

La conferma più recente si trova nella regolamentazione posta dal decreto legge 69/2013 a prevenzione dei possibili conflitti di interesse dei giudici ausiliari di Corte d'appello. Essa dimostra una volta di più che l'utilizzazione di "avvocati-part-time" da parte delle pubbliche amministrazioni è addirittura fondamentale e non crea seri problemi di conflitti di interessi per il miglior andamento della pubblica amministrazione (persino per l'amministrazione della giustizia).

Di certo, inoltre, il generale quadro ordinamentale della professione forense è ispirato all'esigenza del minimo sacrificio delle opportunità professionali per un abilitato all'esercizio di quella professione.  Ricordo che fu il TAR Lazio, con ordinanza 10125 del 28/4/2004, a riconoscerlo espressamente. D'altro canto, per convincersene basta consultare la pagina di wikipedia dedicata all'Avvocato Guido Alpa, attuale Presidente del Consiglio Nazionale Forense (ente pubblico non economico che è nel contempo "legislatore" di settore quanto a deontologia forense, amministratore dagli ampissimi poteri <incrementati con legge 247/12> e giudice speciale della disciplina forense e della tenuta deli albi degli avvocati).  Egli, per quanto si legge nella pagina dedicatagli da wikipedia, oltre ad esere avvocato: è professore ordinario di diritto civile presso la facoltà di giurisprudenza della Università di Roma "Sapienza"; è membro del Consiglio Nazionale Forense dal 1995; è presidente del Consiglio Nazionale Forense dal 2004;  il 14 aprile 2014 è stato nominato nel consiglio di amministrazione di una società abbastanza importante come "Finmeccanica". Tutte attività espletate nel pieno rispetto delle vigenti regole riguardanti le incompatibilità. Ma domandiamoci: se tutte queste cose può fare l'avvocato Presidente del Consiglio Nazionale Forense, è possibile continuare a dire (ignorando l'insegnamento della sentenza della Corte costituzionale 189/2001) che con la professione di avvocato è incompatibile qualsiasi rapporto di impiego pubblico a part time ridotto (così affermò la leggina corporativa 339/2003 e così ha ribadito la riforma della professione forense approvata con l. 247/2012, all'art. 18, lettera d)? Vogliamo aspettare che sia la Corte europea dei diritti dell'Uomo a condannare l'Italia per violazione dell'art. 14 e 8 della CEDU, stante l'evidente discriminazione ? La discriminazione oggi sussiste sotto un duplice aspetto: 1) sotto l'aspetto di discriminazione dei dipendenti pubblici a part time ridotto (novelli servi fisci, discriminati con norme liberticide) ai quali non è consentito di fare anche l'avvocato, mentre ciò è consentito a soggetti ben più potenti e dunque ben più a ragione destinatari di norme preventive di conflitti di interessi; 2) sotto l'aspetto di discriminazione degli avvocati rispetto a tutti gli altri professionisti regolamentati in Ordini professionali, ai quali è consentito accedere anche all'impiego pubblico a part time ridotto (art. 1, comma 56 e seguenti della l. 662/1996). C'è, dunque, una eccezione inspiegabile (che va rimossa subito) alla gran libertà di lavorare ANCHE COME AVVOCATO e alla gran libertà di lavorare ANCHE COME DIPENDENTE PUBBLICO A PART TIME RIDOTTO (tra il 30% e il 50% dell'orario pieno).

Se, tenendo a mente l'insegnamento di Costr Cost. 189/2001, si riflette sulla vicenda la cancellazione dagli albi forensi comminata dalla l. 339/03 nei confronti di soggetti che avevano avuto solo la colpa di fidarsi di quella motivatissima sentenza della Corte, essa risulta gravemente discriminatoria a fronte del trattamento privilegiato che è invece riservato a tutte le seguenti categorie di soggetti (che potremmo definire cumulativamente "avvocati stranamente compatibili") i quali sono ammessi a fare anche l'avvocato assieme all'altra loro attività: consiglieri del C.N.F., parlamentari, commissari di governo, giudici di pace, giudici onorari di tribunale, giudici tributari, giudici ausiliari di corte d'appello, vice procuratori onorari, professori universitari e altri insegnanti che risultino iscritti all'albo forense alla data di entrata in vigore della l. 247/12, amministratori (anche amministratori unici), consiglieri delegati e presidenti del consiglio di amministrazione di società a capitali interamente pubblico o di enti e consorzi pubblici. Risulta anche discriminatoria per il fatto che per un'altra ampia categoria di soggetti è stata confermata dall'art. 20 della l. 247/12 la compatibiltà con la professione d'avvocato (non comminandosi la loro cancellazione dagli albi) ed è stata solo prevista, per essi, una "sospensione dall'esercizio professionale" che però, comportando la permanenza dell'iscrizione all'albo consente agli interessati di restare soci di società di capitali tra avvocati e lucrarne reddito. Si tratta di soggetti di grande potere: gli avvocati che siano anche Presidente della Repubblica, Presidente del Senato, Presidente della Camera, Presidente del Consiglio dei ministri, ministri, viceministri, sottosegretari di Stato, presidenti di Giunta regionale, presidenti delle province autonome di Trento e Bolzano, membri della Corte costituzionale o del Consiglio superiore della magistratura, presidenti di provincia con più di un milione di abitanti, sindaci di comuni con più di 500.000 abitanti. COMMEMTARE E' DIFFICILE: MI VIENE DA DIRE "POVERA ITALIA".

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10) Basti considerare come la l. 247/2012 abbia salvato i "diritti quesiti" a rimanere iscritti agli albi forensi per altre categorie di soggetti che al pari degli impiegati pubblici a part time ridotto non posseggono gli innovativi requisiti di iscrizione stabiliti dalla medesima l. 247/2012. Il privilegio della salvaguardia dei "diritti quesiti" a permanere iscritti agli albi secondo le vecchie regole è stato concesso ad esempio agli insegnanti elementari e ai docenti e ricercatori universitari a tempo pieno (art. 65, comma 3, in relazione all'art. 19 l. 247/12), nonchè agli avvocati degli enti pubblici (art. 23 l. 247/12) già iscritti negli albi speciali. Solo costoro e non anche gli impiegati pubblici a part time devono "scampare" all'applicazione del "principio che raccomanda di evitare diversità di trattamento diffuse e indeterminate nel tempo, «non potendosi lasciare nell’ordinamento sine die una duplicità di discipline diverse e parallele per le stesse situazioni» (sentenza n. 378 del 1994)" ?

Non si vede come la Corte costituzionale abbia potuto ritenere che oggi, dopo l'entrata in vigore della l. 247/12, l'ordinamento italiano confermi ancora la "scelta normativa di carattere inderogabilmente ostativo sottesa alla legge n. 339 del 2003. Scelta inevitabilmente destinata a produrre effetti, proprio per la sua portata generale, anche sulle posizioni dei dipendenti pubblici part-time legittimamente trovatisi ad esercitare in concomitanza la professione di avvocati". Non si vede come la Corte costituzionale, investita -con ordinanza di rimessione del 24 marzo 2011 e dunque anteriore all'entrata in vigore della l. 247/12- di una verifica di costituzionalità della l. 339/03 in relazione all'art.  3 (oltre che in relazione agli artt. 4, 35 e 41) della Costituzione, nonché al principio di ragionevolezza, abbia potuto evitare di considerare che la "riforma forense" di cui alla l. 247/12 ha, per talune categorie e con esito discriminatorio nei confronti degli impiegati pubblici a part time ridotto, voluto proprio quel "risultato, giudicato certamente irragionevole, «di conservare “ad esaurimento” una riserva di [soggetti, non lavoratori pubblici part-time], contemporaneamente avvocati, all’interno di un sistema radicalmente contrario alla coesistenza delle due figure lavorative nella stessa persona»". Evitando di trarre dalle scelte operate con l. 247/12 le dovute conseguenze in termini di ragionevolezza del sacrificio retroattivo imposto ai soli impiegati pubblici a part time ridotto, la Corte costituzionale ha disatteso quelle chiare esigenze di omogeneità di trattamento esaltate dalla sentenza della Corte n. 166 del 2012 (alla quale improvvidamente pure si richiama). Proprio perchè, come si legge nell'ordinanza 3/2014, "occorre "prevenire distorsioni come quella sopra paventata" e proprio perchè va "ribadito il principio che raccomanda di evitare diversità di trattamento diffuse e indeterminate nel tempo, «non potendosi lasciare nell’ordinamento sine die una duplicità di discipline diverse e parallele per le stesse situazioni» (sentenza n. 378 del 1994)", la Corte avrebbe dovuto almeno rinviare al giudice a quo per una nuova valutazione del dubbio di costituzionalità alla luce delle novità profonde introdotte dalla l. 247/12 nel senso d'un minor rigore per le incompatibilità di soggetti "affidati" per previgente normativa.

Semplicemente non è vera, infatti, (per quanto sopra detto con riguardo all'art. 65, comma 3, in relazione all'art. 19, e con riguardo all'art. 23 della l. 247/12) l'affermazione della Corte costituzionale per cui dopo la pronuncia di non fondatezza di cui alla sentenza 166/2012 "il quadro normativo di riferimento è rimasto sostanzialmente immutato". CONCLUSIONE: LA LUNGA VICENDA COSTITUZIONALE DELLA L. 339/03 NON E' ANCORA TERMINATA E LA CORTE DELLE LEGGI POTRA' ESSERE ANCORA CHIAMATA A GIUDICARLA, FORSE COL DECISIVO PUNGOLO D'UNA SENTENZA DI STRASBURGO.

CILIEGINA SULLA TORTA, IN TEMA DI DISCRIMINAZIONE DEGLI IMPIEGATI PUBBLICI A PART TIME, SARA' LA CENSURA DI VIOLAZIONE DELLA CEDU PERPETRATA DALL'ART. 18, LETTERA C, DELLA L. 247/12, NEL CONSENTIRE ASSURDAMENTE DI POTER ESERCITARE LA PROFESSIONE D'AVVOCATO A SOGGETTI BEN PIU' "PERICOLOSI" DEGLI IMPIEGATI PUBBLICI A PART TIME RIDOTTO E CIOE' AGLI AMMINISTRATORI DI ENTI E CONSORZI PUBBLICI O DI SOCIETA' A CAPITALE INTERAMENTE PUBBBICO !

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11) la prevenzione del conflitto d'interessi sia riconosciuto come uno dei principi basilari della professione forense.

Ritengo però debba aggiungersi che in tema di prevenzione del conflitto d'interessi  occorre verificare, secondo il c.d. "criterio di proporzionalità-adeguatezza della regolazione" (richiamato sempre più spesso in giurisprudenza) :

a) se le vigenti presunzioni di incompatibilità all'"esercizio della professione forense (che è sempre e comunque, per logica elementare che voglia riconoscere la necessità umana, un esercizio a part-time dell'avvocatura) siano tutte idonee a garantire il conseguimento dello scopo perseguito di tutela dei consumatori (o, se si preferisce, dei clienti dell'avvocato) e la buona amministrazione della giustizia;

b) se alcuna delle vigenti presunzioni di incompatibilità all'esercizio della professione di avvocato vada oltre quanto necessario per il raggiungimento dello scopo, rivelandosi sproporzionata rispetto ad esso;

c) se ricorrano o meno ragioni imperative di interesse pubblico in grado di giustificare la restrizione della libera prestazione del servizio professionale di avvocato che dette presunzioni realizzano;

d) se le norme professionali relative all'esercizio della professione di avvocato e in particolare quelle di organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità siano (o debbano essere strutturate in modo da essere) di per se sufficienti per raggiungere gli obiettivi che il vigente sistema di compatibilità-incompatibilità persegue attraverso presunzioni odiose di conflitti di interessi.

Le leggi devono rispondere ai requisiti di cui ai quattro punti sopra evidenziati, altrimenti sono incostituzionali per violazione dell'art. 117 della Costituzione che ormai recepisce il principio di concorrenza, nonchè per irragionevole compressioni di diritti fondamentali di libertà (parametri l'art. 3, 41, 35 Cost.).

Altrimenti per raggiungere un fine apprezzabile (anche se talvolta sbandierato dai titolari di interessi a mantenere la chiusura del mercato dei servizi professionali di avvocato) si realizza una inammissibile caccia alle streghe.

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12) La Corte dei conti, Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo, con deliberazione n. 7 del 16 aprile 2014, afferma che quando le esigenze di consulenze esterne della Pubblica Amministrazione durano da troppi anni, la P.A. ha l'obbligo di ripensare e rimodulare i fabbisogni di personale in organico. Si legge, tra l'altro, nella deliberazione della Corte dei conti: "ove le esigenze dell’amministrazione siano qualificabili come perduranti, la giurisprudenza della Corte ha indicato che l’amministrazione stessa ha l’onere di trovare idonee soluzioni, in termini di programmazione dei fabbisogni di personale, nonché in termini di aggiornamento e formazione dei profili professionali interni (delib. 3/2014, 13/2013, 26/2012 e 24/2011). Conclusivamente, il Collegio ritiene che, non essendovi motivi per discostarsi dall’orientamento assunto in materia dalla Sezione, l’atto in esame, in quanto carente dei requisiti di temporaneità e straordinarietà della prestazione, non può essere ammesso al visto e alla registrazione."

E' evidente che istituire un ruolo separato dei dipendenti pubblici a part time che siano anche avvocati nel libero Foro sarebbe la maniera migliore per ovviare alle spese pazze per consulenze legali (spesso fasulle) di tante amministrazioni pubbliche. Togierebbe di mezzo la scusa (spesso accampata da amministratori che vogliono favorire gli amici avvocati) che, data la carenza di specifiche professionalità legali nell'organico della pubblica amministrazione, non c'è alternativa all'affidamento esterno delle costose consulenze legali.  L'uovo di Colombo è il definitivo sdoganamento degli avvocati part time.

E per superare le prevedibili reazioni della corporazione degli avvocati si potrà replicare che: 1) nella crisi dell'Avvocatura è ottima prospettiva per tanti avvocati oggi in grave difficoltà economica quella di concorrere (a far parte (come dipendente pubblico a part time) d'una nuova e propulsiva AVVOCATURA PART TIME DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE; 2) avevano ragione i professori Cassese, Pizzorno, e Arcidiacono quando (chiamati a comporre il c.d. “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione”, istituito con decreto n. 211 del 30.9.1996 dall’allora Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante) scrivevano: «Una delle ragioni principali della corruzione -scrissero- è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».

Inoltre, si consideri che la regolamentazione posta dal decreto legge 69/2013 a prevenzione dei possibili conflitti di interesse dei giudici ausiliari di Corte d'appello dimostra una volta di più che, al fine del miglior andamento della pubblica amministrazione, il Legislatore italiano reputa in via generale che gli avvocati in attività possono e devono esser coinvolti a pieno nelle attività pubblicistiche, anche le più delicate, senza timore che ne possano derivare conflitti di interesse (o accaparramenti di clientela o, comunque, lesione del bene dell'autonomia e dell livello di indipendenza necessario per svolgere sia l'attività d'avvocato che quella pubblicistica) che non siano gestibili con ordinarie misure disciplinari adottabili dalla stessa pubblica amministrazione nei confronti del suo dipendente part time che sia anche avvocato, e/o adottabili dall'Ordine degli avvocati al quale l'avvocato part time è iscritto.

Fino ad oggi c'è una eccezione inspiegabile (che va rimossa subito) al generale quadro ordinamentale della professione forense, che è ispirato all'esigenza del minimo sacrificio delle opportunità professionali per un abilitato all'esercizio di quella professione (ricordo che fu il TAR Lazio, con ordinanza 10125 del 28/4/2004, a riconoscere espressamente tale il "quadro ordinamentale" della professione d'avvocato). Tale eccezione inspiegabile è quella dei semplici impiegati pubblici a part time ridotto, novelli servi fisci, discriminati a più riprese con norme liberticide, come risulta evidente se solo si legge la sentenza della Corte costituzionale n. 189/01.

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13) Quale sia la strada per una rivoluzione del pubblico impiego nel senso dell'efficienza (e della seria lotta alla corruzione dei pubblici poteri) lo scrissero a chiare note i professori Cassese, Pizzorno, e Arcidiacono, chiamati a comporre il c.d. “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione”, istituito con decreto n. 211 del 30.9.1996 dall’allora Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante. «Una delle ragioni principali della corruzione -scrissero- è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».

Occorre integrare e considerazioni dei professori  Cassese, Pizzorno e Arcidiacono con una necessaria differenziazione di trattamento delle professioni tecniche rispetto alle professioni giuridiche: per le professionalità giuridiche i ruoli delle amministrazioni devono esser rafforzati in maniera più decisa di quanto debba farsi per le professionalità tecniche. Infatti, se per le professionalità tecniche ha senso ricercare l'eccellanza "nel mercato" (magari designando a componenti delle commissioni aggiudicatrici degli appalti "giurie miste individuate dalla stazione appaltante in collaborazione con gli ordini professionali a seguito di pubblico sorteggio"), non ha senso, e non è tollerabile, che sulle regole giuridiche da applicare le amministrazioni pubbliche debbano chiedere consulenze all'esterno. Hanno, dunque, ragione coloro (tra i quali la Rete delle Professioni Tecniche, che in tal senso presenta un ampio documento sulla riforma degli appalti) che evidenziano che è anacronistica e ipocrita la norma che: 1) consente l'affidamento esterno di servizi ingeneristici a liberi professionisti o a società di ingegneria solo dopo aver dimostrato la carenza in organico di personale tecnico, o la speciale complessità o rilevanza architettonica o ambientale, oppure le difficoltà di rispettare i tempi della programmazione, oppure che si tratti di progetti integrati; 2) correlativamente impone alle pubbliche amministrazioni di affidare prioritariamente ai propri dipendenti la progettazione degli interventi.  Si deve concordare con il presidente del Consiglio Nazionale degli Ingegnari, Armando Zambrano, per il quale "E' paradossale che l'amministrazione chieda ai liberi professionisti requisiti severissimi di fatturato, competenze, lavori svolti, dipendenti, licenze e poi affidi prioritariamente incarichi al proprio interno a qualcuno che non ha nessuno di questi requisiti" (vedasi l'articolo intitolato <<Basta affidare i progetti all'interno della PA>>, ne ilsole24ore del 7/5/2014).

Dunque, occorre consentire ai dipendenti pubblici a part time di fare, se abilitati, l'avvocato. Sussistono, infatti, motivi imperativi di interesse generale per reintrodurre nell'ordinamento la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e l'esercizio delle professione forense. Escludere i c.d. "avvocati-part-time" dalle pubbliche amministrazioni va contro ogni serio intento di riforma delle pubbliche amministrazioni: la funzionalità dei publici poteri deve essere incentivata con interventi che ridisegnino in primo luogo competenze e organigrammi nel segno della professionalità vera (come quella quotidianamente aggiornata dalla frequenza delle aule di giustizia). Si dovrebbe assicurare all'ente pubblico lo stabile consiglio dei suoi dipendenti abilitati all'esercizio della professione forense, ammettendo questi ultimi all'iscrizione all'albo professionale degli avvocati entro i limiti che Corte cost. 189/2001 ha ritenuto l' "uovo di Colombo" per conciliare risparmi notevoli per le pubbliche finanze, miglioramento delle capacità professionali dell'apparato pubblico, salvaguardia della libertà di lavoro professionale.

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14) Plerumque non accidit che l'avvocato part time sia pericoloso

Si legge a pag. 114 della relazione del Servizio studi della Corte costituzionale, del 27 febbraio 2014, intitolata "GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE DELL’ANNO 2013": "Sulla ragionevolezza delle presunzioni legali, la sentenza n. 57 – confermando un ormai consolidato orientamento – ha riaffermato il generale principio in base al quale “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie o irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzabili, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”, ribadendo anche che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa...".

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15) Dal discorso del Presidente tedesco Joachim Gauck al Walter Eucken Institut, Friburgo, 16 gennaio 2014:

"Ad alcuni la necessità di plasmare liberamente la propria vita appare più un'imposizione che una fortuna. La libertà non presenta solo l'aspetto positivo di dischiudere possibilità prima precluse. La libertà ha anche l'effetto di dissolvere legami, di suscitare incertezza e paure. L'avvento della libertà è sempre accompagnato da grandi timori. Il suono stesso della parola "libertà" appare minaccioso a chi aspira non tanto all'apertura dei propri orizzonti, bensì alla prevedibilità e alla chiarezza. Vi è inoltre il continuo impulso a riaffermare la posizione raggiunta in relazione ai nostri simili. Molti non credono nella gara che decide la nostra esistenza, una gara che inizia a scuola e che ci accompagna non solo nella nostra vita professionale ed economica, ma anche nello sport, nell'arte, nella cultura. La democrazia non sarebbe concepibile nell'assenza di una competizione. Il nostro paese compete con altre nazioni non solo con la propria economia, ma anche con il suo modello di società.

Ma di fatto molti - troppi! - si trovano a disagio con il concetto stesso di concorrenza e di competizione. Se dobbiamo continuamente misurarci con gli altri, è possibile che ci troviamo più e più volte a venire sconfitti. Questo è il paradosso dell'ordine liberale: conosco molte persone che un tempo temevano l'idea di venire incarcerati, che cercavano e anelavano la libertà, ma che oggi la temono e che hanno addirittura paura di essere lasciati indietro. Si tratta di un sentimento umano e comprensibile, ma è necessario spiegare che la concorrenza è prima di tutto, se è giusta e aperta, una forza liberatrice. La concorrenza abbatte i privilegi tradizionali, le più radicate strutture di potere e in tal modo dischiude spazi per una partecipazione sempre più ampia. La concorrenza offre - anche in caso di fallimento - una seconda occasione, sempre nuove occasioni. E se è ben strutturata, è anche giusta ed equa.

L'ingiustizia prospera proprio laddove la concorrenza viene limitata: dal protezionismo, dalla corruzione o dalla benevola attenzione a interessi particolari imposta dallo Stato, quando ad esempio i seguaci di un determinato partito stabiliscono chi possa raggiungere una particolare posizione, o quando i ricchi e i potenti cambiano le regole a proprio favore e quindi assegnano arbitrariamente maggiori o minori probabilità di sopravvivere, ai partecipanti al gioco economico.

In definitiva, il grado di apertura di un determinato sistema economico si misura non solo da quello che si può acquistare nei negozi, ma dal fatto che esso riesca a offrire a tutti i cittadini l'opportunità di vivere una vita autonoma e indipendente e se offre realmente tutte le opzioni possibili."

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16) 15/1/2014: Corte dei conti su spese delle amministrazioni per collaborazioni, consulenze ecc...

Interessante relazione della Corte dei conti, Sezione controllo Regione Emilia Romagna, su spese delle pubbliche amministrazioni per collaborazioni, consulenze, studi e ricerche.

Dopo la ricostruzione del complesso e mutevole quadro normativo che regola la materia, la relazione si sofferma su:

"I vincoli sostanziali al conferimento degli incarichi professionali o di collaborazione;

La nuova disciplina degli incarichi professionali esterni affidati a dipendenti pubblici;

I vincoli finanziari al conferimento degli incarichi professionali o di collaborazione;

L’ulteriore evoluzione del quadro normativo. Il controllo preventivo di legittimità sugli atti di alcuni enti ai sensi dell’art. 17, commi 30 e 31, del d.l. n. 78 del 2009;

Gli orientamenti giurisprudenziali in materia di incarichi di studio e di consulenza".

Tra le irregolarità segnalate vi sono la carente motivazione in ordine all’insussistenza di professionalità interne e all’avvenuta comparazione tra i diversi aspiranti all’incarico. Pure è emersa la reiterazione degli incarichi attraverso un improprio ricorso alla proroga, nonché l’utilizzazione di contratti di collaborazione per dissimulare rapporti di lavoro dipendente. Viene segnalata, tra l’altro, l’esigenza di una revisione del quadro normativo, allo scopo di definire in modo univoco e preciso la differenza tra appalto di servizi e incarichi di consulenza, stante il persistere nel vigente quadro normativo di incertezze tra le due figure giuridiche, oggetto di difformi discipline procedurali e sostanziali.

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17) Incompatibilità forensi e liberalizzazioni: via tracciata da Corte Cost 200/12 e dal comma 2 dell'art. 1 del d.l. 1/2012.

E' importante il fatto che la Corte costituzionale, con sentenza 200 del 2012, abbia tracciato la strada della tutela d'una regolazione legislativa proporzionata delle attività economiche e abbia confermato la necessità della verifica di compatibilità delle leggi rispetto alla finalità di tutela (promozione) della concorrenza, sub specie di liberalizzazione. In Italia si configura ormai una protezione costituzionale del principio già sancito dall'art. 3, comma 5, del d.l. 138/2011 per cui gli ordinamenti professionali (compreso quello di avvocato) devono garantire che l'esercizio dell'attività e le regole d'accesso alla stessa rispondano senza eccezioni ai principi di libera concorrenza. Con riguardo, ad esempio, alla recente legge di "riforma forense" (l. 247/2012), numerose previsioni di quel provvedimento attengono alla materia della tutela della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett.e), della Costituzione.

Certo potranno arrivare numerose dichiarazioni di incostituzionalità ove non sia praticabile una interpretazione costituzionalmente orientata delle norma di legge sulla professione forense. Al riguardo è, perciò, importantissimo il comma 2 dell'art. 1 del d.l. 1/2012, per cui: "2.  Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l'iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica."

Un interessante articolo di Francesco Saitto, dal titolo "LA CORTE COSTITUZIONALE, LA TUTELA DELLA CONCORRENZA E IL «PRINCIPIO GENERALE DELLA LIBERALIZZAZIONE» TRA STATO E REGIONI", è pubblicato sulla rivista della Associazione dei costituzionalisti, N°: 4/2012. Questo il sommario: "1. Premessa: il mercato regolato e la concorrenza come problemi di ordine costituzionale; 2. Il «principio generale della liberalizzazione» tra l’art. 41 e l’art. 117, comma 2, lett. e) Cost.; 3. Le altre questioni affrontate dalla Corte e l’incostituzionalità della «soppressione automatica»; 4. Considerazioni conclusive: il mercato e la sent. n. 200 del 2012 alla luce della recente riforma dell’art. 81 Cost."...

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18) La Corte di giustizia, decidendo con sentenza del 6 settembre 2012 le cause C-422/11 P e C-423/11 P, ha dato una interpretazione rigorosa, e nel contempo non liberticida, della indipendenza essenziale allo svolgimento della professione forense innanzi ai giudici dell'Unione Europea.

Per un verso, ribadendo con rigore (punto 24) quanto già statuito al punto 45 della sentenza Akzo Chemicals e Akeros Chemicals / Commissione ha evidenziato che il concetto di indipendenza dell'avvocato implica mancanza di rapporto di impiego tra l'avvocato e il suo cliente (ma, nota bene, non anche una mancanza di rapporto di impiego con altro soggetto che non sia il cliente).

Per altro verso ha attuato il principio di proporzionalità -sancito all'art. 5, paragrafo 4, TUE- ed ha chiaramente ammesso (punto 44) che potrebbero rilevare, ove fossero dimostrate sussistenti, misure materiali e formali che possano "garantire l'indipendenza dell'avvocato allo stesso modo dell'assenza di qualsiasi rapporto di impiego tra quest'ultimo ed il suo cliente".

 

 

 

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 21 Novembre 2019 16:31
 

Restituzione somme post riforma sentenza: al netto di oneri riflessi e IRAP

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Importante decisione della Cassazione in tema di restituzione di importi ricevuti da dipendenti pubblici per differenze retributive pagate loro a causa di vittoria in causa poi riformata. La Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza pubblicata il 20/5/2019, n. 13530/2019, ha confermato la statuizione della Corte d'appello di Roma circa la restituzione al netto e non al lordo degli oneri previdenziali e fiscali.

LEGGI DI SEGUITO L'ORDINANZA DELLA CASSAZIONE LAVORO N. 13530/2019 ...

 

Ultimo aggiornamento Venerdì 21 Giugno 2019 16:48 Leggi tutto...
 

Il monaco Ireneo vince in Corte di giustizia e cala la forza anticoncorrenziale dell'incompatibilità

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Importante la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea nella causa C-431/17, Monachos Eirinaios / Dikigorikos Syllogos Athinon. La Corte di Giustizia dell'Unione europea (Grande Sezione), con sentenza del 7 maggio 2019 nella causa C-431/17, dando ragione al monaco Ireneo del monastero di Petra (Karditsa, Grecia), ha determinato un generale superamento del divieto di ottenere l'iscrizione al registro speciale degli avvocati che hanno acquisito la qualifica professionale in un altro Stato membro ed intendono esercitare (anche in in Italia) la professione forense utilizzando il "titolo professionale di origine". Tale divieto sino ad oggi è stato imposto, in Italia, dal CNF (senza che la Cassazione si mostrasse più propensa a tutelare la concorrenza tra professionisti) ed è stato argomentato da quel giudice speciale col ricorrere di una qualunque causa di incompatibiiità tra quelle previste dall'art. 18 della legge 247/2012.

I Consigli degli ordini degli avvocati non potranno più negare l'iscrizione dell'avvocato "qualificatosi" in altro Stato membro limitandosi ad affermare che essa sarebbe preclusa dalla sussistenza di una causa di incompatibilità prevista dall'ordinamento italiano. Sarà doverosa l'iscrizione se la richiesta di iscrizione sia presentata al Consiglio dell'ordine per esercitare in Italia la professione forense utilizzando il "titolo professionale di origine" (per titolo professionale di origine, ai fini della direttiva 98/5 si intende "il titolo professionale dello Stato membro nel quale l’avvocato ha acquistato il diritto di utilizzare tale titolo prima di esercitare la professione di avvocato nello Stato membro ospitante".

Fondamentale è quanto si legge nella sentenza della Corte di giustizia al punto 30: "Infatti, occorre distinguere, da un lato, l’iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante di un avvocato che desideri esercitare in detto Stato membro, utilizzando il suo titolo professionale di origine, che è soggetta, conformemente all’articolo 3, paragrafo 2, di questa direttiva, alla sola condizione indicata nei punti da 26 a 28 della presente sentenza, e, dall’altro, l’esercizio stesso della professione forense in detto Stato membro, in occasione del quale detto avvocato è soggetto, in forza dell’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva, alle norme professionali e deontologiche applicabili nel medesimo Stato membro."

INTERESSANTE ARTICOLO DI ELISABETTA BERGAMINI SU EUROJUS

SI APRE ORA UN NUOVO FRONTE NELLA GUERRA PER L'ABROGAZIONE DELLE INCOMPATIBILITA' FORENSI: IL FRONTE DEL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE AL CONTRARIO PER GLI ITALIANI CHE HANNO ACQUISITO IN ITALIA IL TITOLO PROFESSIONALE DI AVVOCATO MA POI SONO STATI CANCELLATI DALL'ALBO FORENSE ITALIANO PER UNA INCOMPATIBILITA' TRA QUELLE PREVISTE NELL'ART. 18 DELLA L. 247/2012 CHE NON SIA PREVISTA IN TUTTI GLI ORDINAMENTI PROFESSIONALI FORENSI DEGLI STATI MEMBRI DELLA UNIONE EUROPEA.

Per capire come mai sia giunto il momento di implemetare le professionalità interne alle pubbliche amministrazioni reintroducendo la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione di avvocato si legga la sentenza della Cassazione, sez. 5, n. 28684/2018. Tale sentenza chiarisce quando l'Agenzia delle entrate possa farsi assistere da avvocati del libero Foro ma, ai punti da 6 a 14, dà conto delle attuali gravi difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano per poter ricorrere agli avvocati del libero Foro sia nei gradi di merito che nel giudizio in Cassazione: ne risulta l'opportunità politica della reintroduzione della compatibilità suddetta. E', DUNQUE, CERTO CHE LA DISCRIMINAZIONE AL CONTRARIO DEGLI ITALIANI E' PURE INCOSTITUZIONALE IN QUANTO IRRAGIONEVOLE!!!!

MA ANDIAMO PER GRADI:

La Corte di giustizia ha innanzitutto ricordato il Diritto dell’Unione, scrivendo:

"3 I considerando 2, 6 e 8 della direttiva 98/5 sono così formulati:

«(2)      considerando che (…) [la] direttiva 89/48/CEE [del Consiglio], del 21 dicembre 1988, relativa ad un sistema generale di riconoscimento di diplomi di insegnamento superiore che sanzionano formazioni professionali della durata minima di tre anni [(GU 1989, L 19, pag. 16)] (…) ha lo scopo di garantire l’integrazione dell’avvocato nella professione dello Stato membro ospitante e non mira né a modificare le regole professionali in esso vigenti, né a sottrarre l’avvocato all’applicazione delle stesse;

(…)

(6)      considerando che un’azione comunitaria è giustificata anche dal fatto che alcuni Stati membri già consentono ad avvocati provenienti da altri Stati membri di esercitare attività professionali, sotto forma diversa dalla prestazione di servizi, sul proprio territorio con il loro titolo professionale d’origine; che, tuttavia, negli Stati membri che riconoscono tale diritto le modalità del suo esercizio sono profondamente diverse in relazione, ad esempio, al campo di attività e all’obbligo di iscrizione presso le autorità competenti; che una siffatta disparità di situazioni dà luogo a disparità di trattamento e a distorsioni della concorrenza fra gli avvocati degli Stati membri e costituisce un ostacolo alla loro libera circolazione; che solo una direttiva che stabilisca le condizioni per l’esercizio della professione, sotto forma diversa dalla prestazione di servizi, da parte degli avvocati che esercitano la loro attività con il loro titolo professionale di origine, è in grado di risolvere questi problemi e di dare, in tutti gli Stati membri, identiche possibilità agli avvocati ed agli utenti del diritto.

(…)

(8)      considerando che occorre sottoporre gli avvocati contemplati dalla presente direttiva all’obbligo di iscriversi presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante, in modo che questa possa accertare che essi ottemperano alle regole professionali e deontologiche ivi vigenti; (…)».

4 L’articolo 1, paragrafi 1 e 2, di detta direttiva così recita:

«1.      Scopo della presente direttiva è di facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato, come libero professionista o come lavoratore subordinato, in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale.

2.      Ai fini della presente direttiva, si intende per:

(…)

b)      Stato membro di origine, lo Stato membro nel quale l’avvocato ha acquisito il diritto di utilizzare uno dei titoli professionali di cui alla lettera a) prima di esercitare la professione di avvocato in un altro Stato membro;

c)      Stato membro ospitante, lo Stato membro nel quale l’avvocato esercita secondo le disposizioni della presente direttiva;

d)      titolo professionale di origine, il titolo professionale dello Stato membro nel quale l’avvocato ha acquistato il diritto di utilizzare tale titolo prima di esercitare la professione di avvocato nello Stato membro ospitante;

(…)».

5 Ai sensi dell’articolo 2, primo comma, della direttiva in parola:

«Gli avvocati hanno il diritto di esercitare stabilmente le attività di avvocato precisate all’articolo 5 in tutti gli altri Stati membri con il proprio titolo professionale di origine».

6 L’articolo 3 della stessa direttiva, intitolato «Iscrizione presso l’autorità competente», nei paragrafi 1 e 2 così dispone:

«1.      L’avvocato che intende esercitare in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi presso l’autorità competente di detto Stato membro.

2.      L’autorità competente dello Stato membro ospitante procede all’iscrizione dell’avvocato su presentazione del documento attestante l’iscrizione di questi presso la corrispondente autorità competente dello Stato membro di origine. (…)».

7 L’articolo 6 di detta direttiva, intitolato «Regole professionali e deontologiche applicabili», prevede, nel suo paragrafo 1, quanto segue:

«Indipendentemente dalle regole professionali e deontologiche cui è soggetto nel proprio Stato membro di origine, l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale d’origine è soggetto alle stesse regole professionali e deontologiche cui sono soggetti gli avvocati che esercitano col corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante per tutte le attività che esercita sul territorio di detto Stato»."

Ha poi così argomentato la sua decisione sulla questione pregiudiziale sottoposta al suo giudizio:

"22 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 98/5 debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, la quale vieta a un avvocato avente lo status di monaco, iscritto come avvocato presso l’autorità competente dello Stato membro di origine, di iscriversi presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante al fine di esercitare ivi la sua professione utilizzando il suo titolo professionale di origine, a causa dell’incompatibilità tra lo status di monaco e l’esercizio della professione forense, che detta normativa prevede.

23 Occorre anzitutto ricordare che, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 98/5, essa ha lo scopo di facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale.

24 A questo proposito, la Corte ha già avuto occasione di constatare che detta direttiva istituisce una procedura di reciproco riconoscimento dei titoli professionali degli avvocati emigranti, i quali desiderino esercitare la professione utilizzando il titolo ottenuto nello Stato membro di origine (sentenza del 17 luglio 2014, Torresi, C‑58/13 e C‑59/13, EU:C:2014:2088, punto 36 nonché giurisprudenza ivi citata).

25 Inoltre, come emerge dal considerando 6 della direttiva 98/5, mediante quest’ultima il legislatore dell’Unione ha inteso, in particolare, porre fine alle disparità tra le norme nazionali relative ai requisiti d’iscrizione presso le autorità competenti, da cui derivavano ineguaglianze ed ostacoli alla libera circolazione (sentenza del 17 luglio 2014, Torresi, C‑58/13 e C‑59/13, EU:C:2014:2088, punto 37 nonché giurisprudenza ivi citata).

26 In tale contesto, l’articolo 3 della direttiva 98/5 provvede ad armonizzare completamente i requisiti preliminari richiesti ai fini di esercitare il diritto di stabilimento conferito da tale direttiva, prevedendo che l’avvocato che intende esercitare la professione in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi presso l’autorità competente di detto Stato membro, la quale è tenuta a procedere a tale iscrizione «su presentazione del documento attestante l’iscrizione di questi presso la corrispondente autorità competente dello Stato membro di origine» (sentenza del 17 luglio 2014, Torresi, C‑58/13 e C‑59/13, EU:C:2014:2088, punto 38 nonché giurisprudenza ivi citata).

27 A tale proposito, la Corte ha già statuito che la presentazione, all’autorità competente dello Stato membro ospitante, di un certificato di iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro di origine risulta l’unico requisito cui dev’essere subordinata l’iscrizione dell’interessato nello Stato membro ospitante, che gli consenta di esercitare la sua attività in quest’ultimo Stato membro con il suo titolo professionale di origine (sentenza del 17 luglio 2014, Torresi, C‑58/13 e C‑59/13, EU:C:2014:2088, punto 39 nonché giurisprudenza ivi citata).

28 Pertanto, occorre giudicare che gli avvocati, i quali abbiano acquisito il diritto di fregiarsi di tale titolo professionale in uno Stato membro, quale il ricorrente nel procedimento principale, e che presentino all’autorità competente dello Stato membro ospitante il certificato della loro iscrizione presso l’autorità competente di questo primo Stato membro, devono essere considerati in regola con tutte le condizioni necessarie per la loro iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante, con il loro titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine.

29 Questa conclusione non è rimessa in discussione dalla circostanza che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 98/5 assoggetta l’avvocato che eserciti nello Stato membro ospitante utilizzando il suo titolo professionale di origine, indipendentemente dalle norme professionali e deontologiche alle quali egli è soggetto nel suo Stato membro di origine, alle stesse norme professionali e deontologiche cui sono soggetti gli avvocati che esercitano con il titolo professionale adeguato dello Stato membro ospitante per tutte le attività esercitate nel territorio di quest’ultimo.

30 Infatti, occorre distinguere, da un lato, l’iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante di un avvocato che desideri esercitare in detto Stato membro, utilizzando il suo titolo professionale di origine, che è soggetta, conformemente all’articolo 3, paragrafo 2, di questa direttiva, alla sola condizione indicata nei punti da 26 a 28 della presente sentenza, e, dall’altro, l’esercizio stesso della professione forense in detto Stato membro, in occasione del quale detto avvocato è soggetto, in forza dell’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva, alle norme professionali e deontologiche applicabili nel medesimo Stato membro.

31 A questo proposito, occorre ricordare che tali norme, contrariamente a quelle vertenti sui presupposti richiesti per tale iscrizione, non sono state oggetto di armonizzazione e, pertanto, possono divergere considerevolmente da quelle vigenti nello Stato membro di origine. Del resto, come conferma l’articolo 7, paragrafo 1, della citata direttiva, l’inosservanza di dette norme può condurre all’applicazione delle sanzioni previste nell’ordinamento dello Stato membro ospitante. Queste sanzioni possono comprendere, eventualmente, la cancellazione dall’albo pertinente di detto Stato membro (v., in tal senso, sentenza del 2 dicembre 2010, Jakubowska, C‑225/09, EU:C:2010:729, punto 57).

32 Nel caso di specie, dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio si evince che, secondo l’autorità competente dello Stato membro ospitante, l’esercizio della professione forense da parte di un monaco non soddisferebbe le garanzie, quali previste nel punto 18 della presente sentenza, le quali, in forza del diritto di detto Stato membro, sono richieste ai fini di tale esercizio.

33 A questo proposito, occorre ricordare che è concesso al legislatore nazionale prevedere garanzie siffatte una volta che le norme stabilite a tale scopo non eccedono quanto necessario a conseguire gli obiettivi perseguiti. In particolare, la mancanza di conflitti di interesse è indispensabile all’esercizio della professione forense e implica, segnatamente, che gli avvocati si trovino in una situazione di indipendenza nei confronti delle autorità, dalle quali è opportuno che essi non siano assolutamente influenzati.

34 Questa facoltà offerta al legislatore nazionale non può consentirgli tuttavia di aggiungere ai presupposti richiesti per l’iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante, i quali, come ricordato nel punto 26 della presente sentenza, sono stati oggetto di una completa armonizzazione, determinate condizioni supplementari relative al rispetto di obblighi professionali e deontologici. Ebbene, negare a un avvocato, che desideri esercitare la professione nello Stato membro ospitante utilizzando il suo titolo professionale di origine, la sua iscrizione presso le autorità competenti di detto Stato membro sol perché egli ha lo status di monaco equivarrebbe ad aggiungere una condizione di iscrizione a quelle contenute nell’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 98/5, laddove un’aggiunta siffatta non è autorizzata da questa disposizione.

35 Peraltro, come ricordato nel punto 33 della presente sentenza, le norme professionali e deontologiche applicabili nello Stato membro ospitante, per essere conformi al diritto dell’Unione, devono rispettare, in particolare, il principio di proporzionalità, il che implica che esse non devono eccedere quanto necessario per conseguire gli scopi perseguiti. Spetta al giudice del rinvio procedere alle verifiche necessarie per quanto concerne la norma sull’incompatibilità in questione nel procedimento principale.

36 Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre risolvere la questione proposta dichiarando che l’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 98/5 dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, la quale vieta a un avvocato avente lo status di monaco, iscritto come avvocato presso l’autorità competente dello Stato membro di origine, di iscriversi presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante al fine di esercitare ivi la sua professione utilizzando il suo titolo professionale di origine, a causa dell’incompatibilità tra lo status di monaco e l’esercizio della professione forense, che detta normativa prevede."

Infine la Corte ha dichiarato:

"L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, la quale vieta a un avvocato avente lo status di monaco, iscritto come avvocato presso l’autorità competente dello Stato membro di origine, di iscriversi presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante al fine di esercitare ivi la sua professione utilizzando il suo titolo professionale di origine, a causa dell’incompatibilità tra lo status di monaco e l’esercizio della professione forense, che detta normativa prevede."

Pur se la decisione sulla questione sottoposta alla Corte di giustizia ha riguardato il caso particolare dell'incompatibilità di un monaco, è evidente che essa determina un generale superamento del divieto -argomentato col ricorrere di una qualunque causa di incompatibiiità tra quelle previste dall'art. 18 della legge 247/2012- sino ad oggi imposto in Italia, dal CNF, di ottenere l'iscrizione all'albo degli avvocati per esercitare in Italia la professione forense utilizzando il titolo professionale di origine. I Consigli degli ordini degli avvocati non potranno più negare l'iscrizione all'albo limitandosi ad affermare che essa sarebbe preclusa dalla sussistenza di una causa di incompatibilità prevista dall'ordinamento italiano. Fondamentale è quanto si legge nella sentenza della Corte di giustizia al punto 30: "Infatti, occorre distinguere, da un lato, l’iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante di un avvocato che desideri esercitare in detto Stato membro, utilizzando il suo titolo professionale di origine, che è soggetta, conformemente all’articolo 3, paragrafo 2, di questa direttiva, alla sola condizione indicata nei punti da 26 a 28 della presente sentenza, e, dall’altro, l’esercizio stesso della professione forense in detto Stato membro, in occasione del quale detto avvocato è soggetto, in forza dell’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva, alle norme professionali e deontologiche applicabili nel medesimo Stato membro."

QUI TROVI LE CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE.

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA SULLA CAUSA C-431/17.

 

Ultimo aggiornamento Mercoledì 05 Giugno 2019 18:55 Leggi tutto...
 

La dama con la reticella di perle dell'Ambrosiana era D. Fiordiponti?

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"Ritratto d'una duchessa di Milano dal mezzo in su, di mano di Leonardo", che fu donato, con tutta la sua "quadreria" dal cardinale Federico Borromeo alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (oggi esposto nella Pinacoteca Ambrosiana ed attribuito a Giovanni Ambrogio de Predis).

Carla Glori, in "Proposta di identificazione della dama con la reticella di perle di Ambrogio de Predis", ritiene che la dama possa essere Isabella d'Aragona nel suo ritratto nuziale (1490 circa) e non Beatrice d'Este, come spesso è stato ritenuto. A tale attribuzione la Glori giunge in base a numerosi indizi ricavati da una comparazione con i ritratti delle spose degli Sforza e in particolare con i gioielli indossati.

Esiste, però, un antico bassorilievo in marmo (cm 20 di larghezza x 29 di altezza al culmine x 1,5 di spessore) raffigurante lo stesso soggetto e sul quale, in basso a destra, si legge una incisione: D. Fiordiponti. Una sola sembra essere la differenza del bassorilievo rispetto al quadro della Ambrosiana: sul petto, sopra la perla, la gemma appare incastonata in un reticolo a cerchio e croce come quelli che, sia nel quadro che nel bassorilievo, si trovano sul nastro che regge capelli e cuffietta di perle.

Era tale D. Fiordiponti la Dama con la retina di perle ritratta nel famoso quadro dell'Ambrosiana? Credo di si. Che senso avrebbe, altrimenti, l'incisione D. Fiordiponti sul bassorilievo? E chi era la Dama di nome D. Fiordiponti?

 

Ultimo aggiornamento Domenica 12 Maggio 2019 14:12
 

Avvocato e imprenditore agricolo: quando si può.

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dalla newsletter del CNF del 4 aprile 2019

Due quesiti del COA di Trapani in tema di incompatibilità professionale

Il COA di Trapani chiede di sapere se sussista incompatibilità all’esercizio della professione forense per il soggetto che, esercitando il ruolo di presidente ed anche di consigliere di un consiglio di amministrazione, presieda alle mansioni gestorie che competono collegialmente sul Consiglio intero (e non individualmente sulla figura apicale, la firma e la rappresentanza sociale spettano al presidente del consiglio di amministrazione nonché agli amministratori delegati, se nominati) e più specificamente su quelle che seguono: ”deliberare su tutti gli atti e le operazioni di ordinaria e straordinaria amministrazione necessari per l’attuazione dell’oggetto sociale, acquistare, vendere e permutare beni mobili e immobili per le necessità aziendali. Consentire iscrizioni, cancellazioni e postergazioni ipotecarie, rilasciare garanzie a favore di istituti di credito per operazioni di finanziamento nell’interesse proprio e della società”.
Il COA di Trapani chiede, inoltre di sapere, al fine sopra indicato, se lo svolgimento da parte di un iscritto di attività gestoria di una società cooperativa agricola a prevalente interesse mutualistico sia compatibile o meno con l’esercizio della professione forense ed in particolare quando l’attività in concreto scelta attenga alla vendita in comune dei prodotti e sottoprodotti e la ripartizione del ricavo netto ai soci in rapporto alla quantità e qualità dei prodotti conferiti, all’acquisto di macchinari per la trasformazione e il trasporto dei prodotti, acquisto di macchine ed attrezzi agricoli, piante, sementi bestiame e quanto possa necessitare alle aziende anche per l’esecuzione di miglioramenti e trasformazioni, concedendoli, occorrendo, anche ratealmente ai soci; assunzione in affitto, acquisto di terreni per condurli direttamente in conto sociale o l’assegnazione ai singoli soci con preferenza ai meno abbienti”.
Per la risposta si rinvia al parere di questa Commissione del 25 settembre 2013, n. 92, che si riporta in calce, con l’avvertenza, tuttavia, che nel caso prospettato dal quesito non può essere ravvisata la figura del piccolo imprenditore stante la rilevante dimensione della società cooperativa agricola e l’attività in concreto svolta dalla medesima. In siffatta situazione la qualità di amministratore della società è incompatibile, ai sensi dell’art. 18, comma 1, lett. c), della L. n. 247/2012, con la professione di avvocato.

Consiglio Nazionale Forense (rel. Allorio), parere 25 settembre 2013, n. 92

Il COA di Rieti pone un quesito riguardante la compatibilità tra l’esercizio dell’attività d’imprenditore agricolo professionale (D.Lgs n. 99/2004) e l’iscrizione nell’Albo degli Avvocati.
Ritiene questa Commissione che anche dopo l’entrata in vigore della Legge n. 247/2012 debba essere confermato il proprio costante orientamento, espresso nella vigenza del precedente ordinamento professionale forense e illustrato da ultimo nei pareri 14 gennaio 2011, n.1 e 25 novembre 2009, n. 44 e 9 maggio 2007, n. 31, nei quali si sono indicati i criterî utili a valutare in concreto la compatibilità tra lo svolgimento di attività imprenditoriale agricola e la contemporanea permanenza nell’albo degli avvocati.
Si deve premettere che l’incertezza interpretativa ha ragione d’essere solo con riferimento al piccolo imprenditore agricolo: è evidente che, qualora si tratti di un titolare di una consistente impresa organizzata, o ancora con attività estesa all’industria e al commercio nel settore agroalimentare, questi deve essere considerato un “esercente il commercio” nel senso più pieno di cui all’art.18 della Legge Professionale Forense e l’iscrizione nell’Albo incompatibile con l’attività svolta.
Di contro, non rientra tra quelle incompatibili la figura del piccolo imprenditore agricolo: tale è per il codice civile (art. 2083) e la giurisprudenza colui che, per mezzo del lavoro proprio o di quello dei propri congiunti, coltiva il fondo di sua proprietà, eventualmente cedendo i frutti a terzi.
Manca, dunque, al piccolo imprenditore agricolo quel quid pluris, rappresentato, ad esempio, da una organizzazione aziendale molto articolata, o dallo smercio di prodotti chiaramente eccedenti quelli prodotti dal fondo, o, anche, da una rilevante trasformazione del prodotto naturale, da cui si possa arguire che il carattere predominante dell’attività intrapresa è l’esercizio del commercio, anziché il mero sfruttamento (più o meno redditizio) delle risorse terriere.
Si consideri che i caratteri sopra indicati sono, del resto, quelli che garantiscono al piccolo imprenditore la non assoggettabilità alle norme in materia di fallimento, secondo la previsione dell’art. 1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, come modificato con d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (il profilo della soggezione, o meno, al fallimento rimanendo peraltro un corollario e non un criterio distintivo univoco).
La condizione di piccolo imprenditore agricolo non è quindi d’ostacolo al contemporaneo esercizio della professione forense, purché l’interessato si mantenga nei limiti imposti dalla legge e dalla giurisprudenza: vale a dire, finché l’attività di commercio non superi in modo significativo quella di coltivazione, di tal ché sia messa a repentaglio l’indipendenza dell’avvocato (che è bene effettivamente oggetto di tutela da parte dell’ordinamento forense), per il suo entrare nelle dinamiche della concorrenza tra imprenditori commerciali.
Resta, naturalmente, nei compiti e nei poteri del Consiglio dell’Ordine competente, svolta l’istruttoria del caso, giungere ad una determinazione sulla compatibilità dell’iscrizione nel singolo caso.

Consiglio nazionale forense (rel. Salazar), parere del 13 febbraio 2019, n. 19

Ultimo aggiornamento Sabato 06 Aprile 2019 09:43
 

Cancellazione per incompatibilità anche se pende procedimento disciplinare

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DALLA NEWSLETTER DEL CNF DEL 25 MARZO 2019:

IL COA di Ancona chiede di sapere: “se il divieto di procedere alla cancellazione dell’iscritto ex art. 17 L.P. in pendenza di procedimento disciplinare sia applicabile anche alle ipotesi di cancellazione per sopravvenuta perdita dei requisiti”.

La risposta è nei seguenti termini:

Ai sensi dell’art. 17, comma 16 della L. n. 247/2012, che riproduce in parte l’art. 37, penultimo comma del RDL n. 1578/1933. “non si può pronunziare la cancellazione quando sia in corso un procedimento disciplinare”. Il divieto è sancito anche dall’art. 53 della medesima legge ed è trasfuso nell’art. 13 del Regolamento CNF n. 2/2014 sul procedimento disciplinare.

La norma vieta al COA di pronunziare la cancellazione domandata dall’iscritto all’albo professionale che sia stato sottoposto a procedimento disciplinare. Il divieto scatta dal giorno dell’invio degli atti al CDD e dura fino alla definizione del procedimento stesso.

La norma è diretta ad evitare che l’inquisito possa volontariamente sottrarsi al procedimento disciplinare atteso che con la cancellazione verrebbe meno il potere di supremazia speciale di cui gode l’Ordine nei confronti dei propri iscritti.

La norma in esame non trova tuttavia applicazione nell’ipotesi di esercizio da parte dell’Ordine del potere-dovere di annullamento d’ufficio dell’iscrizione all’albo, elenco o registro (art. 17, comma 12, L.P.) per mancanza ab origine di uno dei requisiti di legge necessari per l’iscrizione (art. 17, commi 1 e 2), potere esercitabile, quale atto dovuto senza limiti di tempo dal COA nel pubblico interesse.

Nell’ipotesi di sopravvenuta perdita dei requisiti de quibus l’automatismo del divieto di cancellazione non opera ove la permanenza dell’iscrizione impedisca l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti (diritto al lavoro, alla previdenza, ecc.).

Per quanto concerne l’incompatibilità si rinvia al parere n. 37 del 24 maggio 2017, che qui di seguito si riporta:

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Latina formula quesito in merito alla possibilità di cancellare – su istanza dell’interessato, e per sopravvenuta incompatibilità ai sensi dell’art. 18, lettera d) della legge n. 247/12 – un iscritto, in pendenza di procedimento disciplinare a suo carico (Quesito n. 275, COA di Latina). Sussiste, nella specie, una concorrenza conflittuale tra la norma in tema di incompatibilità – che preclude all’avvocato la permanenza dell’iscrizione nell’Albo, in caso di contestuale titolarità di rapporto di lavoro subordinato – e la norma, altrettanto cogente, relativa al divieto di cancellazione, in pendenza di procedimento disciplinare. Ritiene la Commissione che debba prevalere- in considerazione della tassatività delle relative previsioni nonché, soprattutto, degli interessi sottesi alla disciplina delle incompatibilità – la disposizione in tema di incompatibilità, rispetto al divieto di cancellazione in pendenza di procedimento disciplinare. Diversamente argomentando, si potrebbe configurare un’ipotesi di esercizio della professione da parte del soggetto incompatibile, con potenziali ricadute negative sul pubblico interesse al corretto esercizio della professione, sotto il profilo della migliore tutela dei diritti degli assistiti e della tutela della generalità dei consociati”.

Consiglio nazionale forense (rel. Salazar), parere del 16 gennaio 2019, n. 8

Ultimo aggiornamento Martedì 26 Marzo 2019 12:14
 

Corte cost 194/2018: irragionevolezza per esclusiva considerazione dell'anzianità di servizio

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Si legge nel comunicato stampa della Corte costituzionale del 26/9/2018: "La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte - non modificata dal successivo Decreto legge n.87/2018, cosiddetto “Decreto dignità” – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono state dichiarate inammissibili o infondate. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane."

IN EFFETTI POI E' STATA PUBBLICATA LA SENTENZA 194/2018 CHE RIPORTO DI SEGUITO...

 

Ultimo aggiornamento Lunedì 18 Marzo 2019 11:24 Leggi tutto...
 

Avvocato incompatibile: ecco perchè anche il contributo integrativo gli va restituito

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Con ricorso al Tribunale di Rieti, in opposizione a cartella esattoriale per contributi previdenziali (art. 24, co 5, d.lgs. 46/1999) e per condanna della Cassa Forense a restituzione di contributi con interessi (art. 422 e seg. cpc), Maurizio Perelli argomentò il suo diritto al rimborso, con interessi legali dal primo gennaio successivo ai relativi pagamenti, di tutti i versamenti effettuati alla Cassa Forense in forza della l. 576/80, art. 21, commi 1 e 2, e art. 22, ultimo comma, nonché in forza del Regolamento Generale dell'epoca della Cassa Forense, art. 4, comma 1.

Formulò le seguenti conclusioni: nel merito accertare e dichiarare, l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo per contributi n. ... effettuata dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense nei confronti dell'Avv. Maurizio Perelli e conseguentemente dichiarare che nulla è da costui dovuto alla stessa e conseguentemente annullare la cartella n. ...;   sempre nel merito condannare la Cassa  Forense al rimborso all’Avv. Maurizio Perelli di tutti i contributi previdenziali da costui versati negli anni di sua iscrizione alla Cassa, compresi i contributi “soggettivi” e gli “integrativi”, per un totale di € ..., oltre rivalutazione e interessi legali da calcolarsi fino alla data del rimborso dei contributi e decorrenti dal primo gennaio successivo ai relativi pagamenti che furono effettuati dal ricorrente.

La causa fu decisa all’udienza del 29/11/2016, con sentenza n. 354/2016, recante il seguente dispositivo: “Il Tribunale di Rieti, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando così decide: Respinge la domanda di annullamento della cartella di pagamento. In parziale accoglimento della domanda di rimborso, condanna la Cassa Forense alla restituzione in favore del ricorrente dei contributi versati negli anni 2007, 2008, 2009 –come in parte motiva- oltre interessi legali e rivalutazione monetaria nei limiti del divieto di cumulo. Compensa integralmente le spese di lite tra le parti”.

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Ricongiunzione e totalizzazione per Cass. 2225 del 25/1/2015

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Si legge in Cass. Lav., ord. 2225 del 25/1/2019:

"9. quanto alla ricostruzione storico-sistematica dell'istituto della totalizzazione valgono i seguenti snodi:

- Corte Cost. n. 61 del 1999 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge n. 45 del 1990, laddove non prevedevano che ai liberi professionisti che non avessero maturato il diritto a pensione, oltre alla ricongiunzione dei periodi contributivi, spettasse la facoltà di scelta fra la ricongiunzione onerosa e la totalizzazione gratuita dei periodi contributivi, ai fini del conseguimento di una pensione unica;

- l'articolo 71 della legge n. 38 del 2000 ha esteso l'ambito di applicazione della totalizzazione ai lavoratori le cui pensioni erano liquidate con il sistema retributivo, o misto, senza tuttavia abrogare le precedenti disposizioni, contenute nell'articolo 1 del d.lgs. n. 184 del 1997, valide per i lavoratori le cui pensioni erano liquidate, esclusivamente, con il sistema di calcolo contributivo;

- agli effetti del diritto alla totalizzazione, anche per il legislatore del 2000 i periodi di contribuzione, da cumulare, non devono essere coincidenti, il lavoratore non deve aver maturato il diritto a pensione nel regime generale, nei regimi speciali sostitutivi, esclusivi o esonerativi di quello generale, ed anche nei regimi «privatizzati» di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994 e n. 103 del 1996, nei quali egli sia, o sia stato, iscritto (ulteriore fattispecie di totalizzazione non prevista per il conseguimento della pensione di anzianità, ma soltanto per il conseguimento delle pensioni di vecchiaia, di inabilità ed ai superstiti);

- Corte Cost. n. 198 del 2002 ha chiarito che, nel nostro ordinamento, la totalizzazione dei periodi di contribuzione non costituisce un istituto di carattere generale; il precedente esaminato dalla sentenza n. 61 del 1999 della stessa Corte era delimitato al caso specifico «del lavoratore che non abbia maturato il diritto ad un trattamento pensionistico in alcuna delle gestioni alle quali è stato iscritto»; per funzione e finalità, la totalizzazione era volta a consentire al lavoratore di cumulare, anche ai fini della misura della pensione, contributi versati, in ragione di percorsi lavoratori intrapresi, a diverse istituzioni previdenziali in corrispondenza con la crescente flessibilità dei rapporti di lavoro;

- la legge di delegazione n. 243 del 2004 (di riforma del sistema previdenziale e pensionistico) ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per rivedere e ridefinire la disciplina della totalizzazione, estendendone ulteriormente l'operatività;

- la potestà legislativa delegata è stata attuata con il decreto legislativo n. 42 del 2006 che estende la totalizzazione anche ai lavoratori che già abbiano maturato il diritto a pensione presso uno dei regimi previdenziali di iscrizione, ma non siano ancora titolari di «trattamento pensionistico autonomo»;

- il predetto decreto legislativo n. 42 del 2006 disciplina la possibilità di cumulare i contributi per il conseguimento (oltre che delle pensioni di vecchiaia, di inabilità ed ai superstiti) anche della pensione di anzianità (art. 1, comma 1); indica nell'Inps (e non più, separatamente, nelle singole gestioni) l'ente previdenziale tenuto ad erogare le quote di pensione che esse stesse liquidano, previa stipulazione di «apposite convenzioni con gli enti interessati»; prevede che ogni singola quota della pensione «totalizzata» sia calcolata (non più sulla base dei requisiti e secondo i criteri stabiliti da ciascun ordinamento, ma) «esclusivamente con le regole del sistema contributivo»; prevede, inoltre, che il diritto a pensione sorga, soltanto, a condizione che il lavoratore abbia maturato almeno 20 anni di contribuzione e raggiunto un'età di 65 anni, ovvero abbia maturato un'anzianità contributiva di almeno 40 anni, indipendentemente dall'età, e che sussistano gli ulteriori, eventuali, requisiti (diversi dall'età anagrafica e dall'anzianità contributiva) previsti «dai rispettivi ordinamenti per l'accesso alla pensione di vecchiaia» ed, infine, che i periodi dì contribuzione siano considerati «tutti e per intero»;

- la legge n. 247 del 2007, per finire, ha ulteriormente ampliato i limiti soggettivi di utilizzabilità della totalizzazione modificando anche il comma 1 dell'articolo 1 del decreto legislativo n. 184 del 1997, abrogando le parole «che non abbiano maturato in alcuna delle predette forme il diritto al trattamento previdenziale»;

10. la descritta disciplina della totalizzazione non ha in alcun modo lambito le regole di erogazione dei trattamenti pensionistici di anzianità proprie di ogni singolo ordinamento interessato dalla totalizzazione contributiva, alla luce del disposto dell'art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 148 del 1997, limitandosi a consentire di valorizzare, effettivamente, tutti i contributi versati, dal lavoratore, nel corso della sua intera vita lavorativa, per conseguire il diritto a pensione o ad una pensione più elevata;"

 

Per capire come mai sia giunto il momento di implemetare le professionalità interne alle pubbliche amministrazioni reintroducendo la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione di avvocato si legga la sentenza della Cassazione, sez. 5, n. 28684/2018. Tale sentenza chiarisce quando l'Agenzia delle entrate possa farsi assistere da avvocati del libero Foro ma, ai punti da 6 a 14, dà conto delle attuali gravi difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano per poter ricorrere agli avvocati del libero Foro sia nei gradi di merito che nel giudizio in Cassazione: ne risulta l'opportunità politica della reintroduzione della compatibilità suddetta.

... e ricorda, per far meglio valere il tuo diritto al libero lavoro intellettuale, aderisci al gruppo aperto "concorrenzaeavvocatura" su facebook(conta già centinaia di adesioni). Unisciti ai tanti che rivendicano una vera libertà di lavoro intellettuale per gli outsiders e, finalmente, il superamento del corporativismo nelle professioni...

Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 15:54
 

Cass SSUU 2706/2019 su cancellazione da albo per carenza requisiti

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Cass SSUU con sentenza 2706/2019 ha deciso su cancellazione da albo senza convocazione (primo motivo di ricorso), con notifica della cancellazione solo via PEC (sedicesimo motivo di ricorso), con richiamo agli artt. 50 e 54 del RD 1578/1933 (diciassettesimo motivo di ricorso).

Riporto di seguito stralci della sentenza...

 

Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 16:11 Leggi tutto...
 

CNF GIUDICE E AMMINISTRATORE. Va bene così?

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Si può, però, adire la Corte europea dei diritti dell'uomo !!!!!!!!


 

RIPORTO DALLA NEWSLETTER DEL CNF DELL'8/2/2019:

"CNF: la funzione consultiva e di indirizzo non ne compromette la terzietà in sede giurisdizionale

Non comporta alcun difetto di terzietà o imparzialità la circostanza che il CNF abbia espresso in sede amministrativa un parere ovvero emanato una circolare sulla medesima questione fatta poi oggetto di sua valutazione in sede giurisdizionale (Nel caso di specie, il ricorrente aveva sollevato qlc degli artt. 34, 36 e 37 della L. n. 247/2012 per asserita violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché nella materia per cui era causa il Consiglio Nazionale Forense aveva precedentemente emanato una circolare esplicativa. In applicazione del principio di cui in massima, la Corte ha rigettato l’eccezione in quanto manifestamente infondata). Corte di Cassazione (pres. Tirelli, rel. Chindemi), SS.UU, sentenza n. 3516 del 6 febbraio 2019 NOTA: In senso conforme, tra le altre, Corte di Cassazione (pres. Amoroso, rel. Bianchini), SS.UU, sentenza n. 19404 del 3 agosto 2017, Corte di Cassazione (pres. Amoroso, rel. Bianchini), SS.UU, sentenza n. 19403 del 3 agosto 2017, Corte di Cassazione (pres. Miani Canevari, rel. San Giorgio), SS.UU, sentenza n. 12064 del 29 maggio 2014, Corte di Cassazione (pres. Rordorf, rel. Mazzacane), SS.UU, sentenza n. 775 del 16 gennaio 2014, Corte di Cassazione (pres. Roselli, rel. Mazzacane), SS.UU, sentenza n. 776 del 16 gennaio 2014, Corte di Cassazione (pres. Roselli, rel. Mazzacane), SS.UU, sentenza n. 777 del 16 gennaio 2014, Corte di Cassazione (pres. Miani Canevari, rel. Mazzacane), SS.UU, sentenza n. 778 del 16 gennaio 2014, Corte di Cassazione (pres. Roselli, rel. Mazzacane), SS.UU, sentenza n. 781 del 16 gennaio 2014, Corte di Cassazione (pres. Rordorf, rel. Mazzacane), SS.UU, sentenza n. 782 del 16 gennaio 2014."     Si legge nella detta sentenza: "4. Con il secondo motivo la ricorrente formula eccezione d'incostituzionalità dell'art. 51 n. 1 c.p.c. nella parte in cui non prevede la revocazione del CNF per interferibilità tra funzione di indirizzo (in particolare circolari del 2013 e 2016, indirizzate a tutti i Coa sulla interpretazione del titolo Bota, espresso anche nella sentenza impugnata) e funzione giurisdizionale; sempre nello stesso motivo viene anche eccepita la nullità della sentenza per avere fatto parte del collegio l'avv. Lo neco, componente responsabile di analogo procedimento contro il COA di Caltagirone per interesse diretto, rilevando la violazione degli artt. 47 CDFUE e 6 CEDU che tutelano il diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale. 4.1 La prima censura è inammissibile oltre ad essere infondata; è inammissibile per violazione dell'art. 366 n. 6 cod. proc. civ., in quanto non è stata fornita l'indicazione specifica di dette circolari, sulle quali il motivo di censura rivolto alla sentenza impugnata si fonda; è infondata in quanto, come già deciso in precedente occasione (Cass. S.U., 16 gennaio 2014 n. 775, in materia di giudizi disciplinari) la circostanza che il Consiglio Nazionale Forense, nella sua funzione di indirizzo e di coordinamento dei vari Consigli dell'ordine territoriali, abbia sollecitato gli, stessi all'adozione di provvedimenti di cancellazione dall'albo (nell'ipotesi allora in esame per incompatibilità, ai sensi della legge 25 novembre 2003, n. 339) non costituisce violazione dell'art. 111 Cost. sotto il profilo del difetto di terzietà, giacché le norme che disciplinano, rispettivamente, la nomina dei componenti del C.N.F. ed il procedimento offrono sufficienti garanzie con riguardo all'indipendenza del giudice ed alla imparzialità dei giudizi. La questione prospettata difetta altresì di rilevanza e decisività in quanto la duplicità di ruoli nell'organo amministrativo- giudiziario non ha inciso sulla decisione finale; pienamente legittimo comunque, in ambito più generale, è il prevedere che un organismo a rilevanza pubblica quale il Consiglio Nazionale Forense - e quindi deputato a emanare provvedimenti organizzativi e di indirizzo per i propri iscritti - abbia, a limitati fini, anche il potere di decidere su impugnazioni di provvedimenti degli Ordini locali che formalmente si fondino su proprie disposizioni di carattere generale. Gli ulteriori profili di ritenuta contrarietà delle norme surrichiamate al principio del diritto di difesa e di parità delle parti nell'ambito del procedimento di che trattasi sono immotivati - se non con un implicito rinvio alla omnicomprensività della suesposta censura di lesione al diritto al giusto processo - (cfr Cass. 19403, 19404 e 19405 del 2017). Peraltro, l'emanazione di una circolare da parte del CNF non può certo intendersi come "interesse diretto" ai sensi dell'art. 51, n. 1, citato, atteso che la natura amministrativa della circolare evidenzia un ipotetico interesse del tutto astratto e non "diretto" del CNF: ciò non diversamente da come sarebbe quello che emergerebbe da un proprio precedente di natura giurisdizionale. Si rileva, al riguardo che le Sezioni Unite hanno chiarito che «In realtà l'inosservanza da parte del Giudice dell'obbligo di astensione, nelle ipotesi previste dall'art. 51 c.p.c. determina la nullità del provvedimento adottato solo nell'ipotesi in cui il Giudice abbia un "interesse proprio e diretto" nella causa, tale da porlo nella veste di parte del processo in violazione del criterio nemo iudex in causa sua» (Cass. Sez., Un., n. 16615 del 2005; Cfr anche Cass. sez. SU n. 07536/17 Cass. S.U. 21114/17)".

Per capire come mai sia giunto il momento di implemetare le professionalità interne alle pubbliche amministrazioni reintroducendo la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione di avvocato si legga la sentenza della Cassazione, sez. 5, n. 28684/2018. Tale sentenza chiarisce quando l'Agenzia delle entrate possa farsi assistere da avvocati del libero Foro ma, ai punti da 6 a 14, dà conto delle attuali gravi difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano per poter ricorrere agli avvocati del libero Foro sia nei gradi di merito che nel giudizio in Cassazione: ne risulta l'opportunità politica della reintroduzione della compatibilità suddetta.

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Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 16:09
 

Eugenio Montale: lettera a Malvolio

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LETTERA A MALVOLIO

 

Non s'è trattato mai d'una mia fuga, Malvolio,

e neanche di un mio flair che annusi il peggio

a mille miglia. Questa è una virtù

che tu possiedi e non t'invidio anche

perchè non potrei trarne vantaggio.

No,

non si trattò mai d'una fuga

ma solo di un rispettabile

prendere le distanze.

Non fu molto difficile dapprima,

quando le separazioni erano nette,

l'orrore da una parte e la decenza,

oh solo una decenza infinitesima

dall'altra parte. No, non fu difficile,

bastava scantonare scolorire,

rendersi invisibili,

forse esserlo. Ma dopo.

Ma dopo che le stalle si vuotarono

l'onore e l'indecenza stretti in un solo patto

fondarono l'ossimoro permanente

e non fu più questione

di fughe e di ripari. Era l'ora

della focomelia concettuale

e il distorto era il dritto, su ogni altro

derisione e silenzio.

Fu la tua ora e non è finita.

Con quale agilità rimescolavi

materialismo storico e pauperismo evangelico,

pornografia e riscatto, nausea per l'odore

di trifola, il denaro che ti giungeva.

No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore

non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole.

Ma lascia andare le fughe ora che appena si può

cercare la speranza nel suo negativo.

Lascia che la mia fuga immobile possa dire

forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,

che la partita è chiusa per chi rifiuta

le distanze e s'affretta come tu fai, Malvolio,

perchè sai che domani sarà impossibile anche

alla tua astuzia.

Per capire come mai sia giunto il momento di implemetare le professionalità interne alle pubbliche amministrazioni reintroducendo la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione di avvocato si legga la sentenza della Cassazione, sez. 5, n. 28684/2018. Tale sentenza chiarisce quando l'Agenzia delle entrate possa farsi assistere da avvocati del libero Foro ma, ai punti da 6 a 14, dà conto delle attuali gravi difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano per poter ricorrere agli avvocati del libero Foro sia nei gradi di merito che nel giudizio in Cassazione: ne risulta l'opportunità politica della reintroduzione della compatibilità suddetta.

... e ricorda, per far meglio valere il tuo diritto al libero lavoro intellettuale, aderisci al gruppo aperto "concorrenzaeavvocatura" su facebook(conta già centinaia di adesioni. Unisciti ai tanti che rivendicano una vera libertà di lavoro intellettuale per gli outsiders e, finalmente, il superamento del corporativismo nelle professioni...

Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 16:08
 

Avvocati dipendenti di studi legali? Sarebbe la peggiore delle incompatibilità, a meno che ...

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... ameno che questa novità sia una semplice conseguenza di un più ampio intervento in tema di incompatibilità nelle professioni e cioè a meno che, come da tempo propone l'Antitrust, non si giunga ad eliminare sia l’incompatibilità dell’esercizio di una attività professionale in forma dipendente, sia il contemporaneo esercizio di più attività professionali libere, sia il contemporaneo esercizio di una attività professionale libera e di una attività in qualità di dipendente.

Il 28/3/2018 è stato presentato alla Camera la proposta di legge n. 428/2018, d'iniziativa dei Deputati Gribaudo (PD), Orfini (PD), Fassina (LEU), Fragomeli (PD), Pezzopane (PD), Pini (PD), Zan (PD), Pastorino (LEU). E' stata assegnata alla Commissione giustizia in sede referente il 4/7/2018.

Scrivono i proponenti ai loro onorevoli colleghi: "... La presente proposta di legge ha dunque l'obiettivo di far cessare questa situazione e di garantire a questi avvocati il giusto riconoscimento e la giusta tutela legislativa, modificando l'articolo 19 della legge n. 247 del 2012 e introducendo un'ulteriore deroga al regime delle incompatibilità stabilito dall'articolo 18 della medesima legge.

Si prevede infatti di far decadere l'incompatibilità tra la professione forense e il lavoro dipendente o parasubordinato, quando questo sia svolto in via esclusiva presso lo studio di un altro avvocato, un'associazione professionale ovvero una società tra avvocati o multidisciplinare, purché la natura dell'attività svolta dall'avvocato riguardi esclusivamente quella riconducibile all'attività propria della professione forense.

Non si tratta, quindi, di permettere che un avvocato possa essere assunto per un qualsiasi tipo di lavoro da un qualunque datore di lavoro, essendo la proposta di legge rivolta solo agli avvocati che lavorano come tali negli studi legali di altri avvocati. ..."

Dunque resterebbe in vigore la generale incompatibilità col lavoro subordinato di cui all'art. 18, lettera d, della l. 247/12. E' PROPRIO QUESTO CHE NON VA BENE, O ALMENO NON BASTA.

Già, infatti, l’Antitrust ebbe ad indicare, nel corso della XIII legislatura, su richiesta del Presidente del Consiglio, ex art. 22, l. 287/1990, quali dovrebbero essere i limiti delle incompatibilità nell’accesso alle professioni e nel loro esercizio (con riguardo anche alla professione forense). Nel suo parere, del 5/2/99, sul disegno di legge 5092, recante “delega al Governo per il riordino delle professioni intellettuali” (c.d. “progetto Mirone”) affermò infatti: “... va rilevata la mancanza nel disegno di legge di previsioni atte a mitigare l’attuale regime delle incompatibilità professionali. Una attenta riforma delle modalità di esercizio della professione coerente con i principi della concorrenza richiede invece l’eliminazione di tutte quelle incompatibilità non necessarie e non proporzionate rispetto agli obiettivi che esse intendono perseguire o le cui finalità siano perseguibili attraverso strumenti meno restrittivi della concorrenza. Tale eliminazione riguarda sia l’incompatibilità dell’esercizio di una attività professionale in forma dipendente sia il contemporaneo esercizio di più attività professionali liberesia il contemporaneo esercizio di una attività professionale libera e di una attività in qualità di dipendente”.

LA PROPOSTA DI LEGGE 428/2018 PROPONE, INVECE, L'ASSURDO: CANCELLARE L'UNICA INCOMPATIBILITA' CHE, TRA QUELLE DI CUI ALLA LETTERA D DELL'ART. 18, PRESENTA UN MINIMO DI GIUSTIFICABILITA'. UN AVVOCATO, INFATTI, NON PUO' ESSERE COMPLETAMENTE INDIPENDENTE (COME RICHIEDE IL RUOLO DI DIFENSORE) SE E' PROPRIO IL CONTENUTO DELLA SUA ATTIVITA' DIFENSIVA A POTER ESSERE INFLUENZATO DAL SUO DATORE DI LAVORO.

SE SI VUOLE INTRODURRE LA FIGURA DELL'AVVOCATO DIPENDENTE DEL SUO COLLEGA, SI CANCELLI PARALLELAMENTE, IN PRIMO LUOGO, L'INCOMPATIBILITA' TRA AVVOCATURA E IMPIEGO PUBBLICO A PART TIME RIDOTTO. SI RILEGGANO, AL RIGUARDO: LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 189/2001, LE RIPETUTE SEGNALAZIONI DELL'ANTITRUST IN TEMA DI INCOMPATIBILITA' FORENSI E QUESTO MIO ARTICOLO SULLA CORRETTA DEFINIZIONE DI "INDIPENDENZA DELL'AVVOCATO".

Si consideri poi che la sentenza della Corte Costituzionale dell’11/6/2001, n. 189, afferma: “Per quanto riguarda poi i doveri propri della professione forense, non è dubbio che il diritto di difesa risulta garantito solo se l’avvocato, in piena fedeltà al mandato, è in grado di esercitare compiutamente il ministero tecnico a lui affidato ed in relazione a tale basilare principio, non sembrano, invero, porsi, per i professionisti legati da un rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione, in regime di part time ridotto, particolari esigenze che non possano trovare soddisfazione, così come per l’opera di tutti i professionisti, in quella disciplina generale dell’attività da essi svolta, che giunge a contemplare anche il presidio, ove occorra, della sanzione penale (artt. 380 e 622 c.p.)”.

E ancora, si consideri la sentenza della Corte di giustizia del 6 settembre 2012 nelle cause C-422/11 P e C-423/11 P. Essa ha dato una interpretazione rigorosa, e nel contempo non liberticida, della indipendenza essenziale allo svolgimento della professione forense (innanzi ai giudici dell'Unione Europea ma anche, deve ritenersi, innanzi ai giudici nazionali). In particolare la CGUE:

1) per un verso (ribadendo con rigore, al punto 24, quanto già statuito al punto 45 della sentenza Akzo Chemicals e Akeros Chemicals contro Commissione) ha evidenziato che il concetto di indipendenza dell'avvocato implica mancanza di rapporto di impiego tra l'avvocato e il suo cliente (ma, nota bene, non anche una mancanza di rapporto di impiego con altro soggetto che non sia il cliente);

2) per altro verso ha attuato il principio di proporzionalità -sancito all'art. 5, paragrafo 4, TUE- ed ha chiaramente ammesso (al punto 44) che potrebbero rilevare, ove fossero dimostrate sussistenti, misure materiali e formali che possano "garantire l'indipendenza dell'avvocato allo stesso modo dell'assenza di qualsiasi rapporto di impiego tra quest'ultimo ed il suo cliente". IO RICHIEDEREI ANALOGO RIGORE PER GARANTIRE L'INDIPENDENZA DELL'AVVOCATO DAL SUO COLLEGA CHE SIA ANCHE SUO DATORE DI LAVORO.  CERTAMENTE PIU' FACILE SAREBBE GARANTIRE L'INDIPENDENZA DI UN AVVOCATO CHE INVECE CHE DIPENDERE DA UN SUO COLLEGA SIA UN IMPIEGATO PUBBLICO A PART TIME RIDOTTO: L'HA GIA' DETTO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 189/2001 NEL PASSO CHE HO SOPRA RIPORTATO.

Si consideri infine l'ordinanza della Cassazione, sez. lav., 7320 del 14/3/2019. La stessa, nello statuire che gli insegnanti in part time verticale o misto debbano partecipare all'attività collegiale anche se la convocazione per tale attività è disposta in giorni della settimana non coincidenti in quelli stabiliti per l'insegnamento, ha evidenziato uno dei tanti punti critici del vigente sistema delle compatibilità e incompatibilità forensi, come regolate dalla l. 247/2012. Un tale obbligo di partecipazione all'attività collegiale, infatti, è in contrasto con i rigidi criteri di prevalenza della attività difensiva dell'avvocato rispetto alle altre sue attività lavorative, declamati dalla l. 247/2012. In particolare, è evidente che la permanente compatibilità con l'iscrizione all'albo forense prevista in via d'eccezione dalla l. 247/2012 a favore dei docenti già iscritti all'albo secondo le regole vigenti prima dell'entrata in vigore della l. 247/2012 stessa (permanente compatibilità che ha salvaguardato i loro diritti quesiti alla compatibilità, in contrasto ingiustificabile rispetto al rigore iconosclasta col quale, al contrario, sono stati travolti i diritti quesiti dei dipendenti pubblici a part time ridotto già iscritti all'albo forense in forza della l. 662/1996, art. 1, co 56 e ss.). mette sotto gli occhi di tutti lo svuotamento del detto principio di prevalenza dell'attività difensiva per quei docenti-avvocati che son tenuti  spesso a partecipare alle attività collegiali da insegnante. MA LE INCONGRUENZA DEL REGIME DELLE COMPATIBILITA' E INCOMPATIBILITA' FORENSI SONO NUMEROSISSIME !!!

LEGGI DI SEGUITO IL TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE N. 428/2018 ...

 

Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 16:01 Leggi tutto...
 

Quando il giudice interno disapplica per attuare una direttiva self executing?

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La Corte di giustizia dell'Unione Europea (Grande Sezione) ha deciso la causa C_122/17 dichiarando:

"Il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 288 TFUE, dev’essere interpretato nel senso che un giudice nazionale, investito di una controversia tra singoli, che si trovi nell’impossibilità di interpretare le disposizioni del suo diritto nazionale contrarie ad una disposizione di una direttiva che soddisfa tutte le condizioni richieste per produrre un effetto diretto in un senso conforme a quest’ultima disposizione, non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare tali disposizioni nazionali nonché una clausola contenuta, conformemente a queste ultime, in un contratto di assicurazione.

In una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la parte lesa dalla non conformità del diritto nazionale al diritto dell’Unione o la persona surrogata nei diritti di tale parte potrebbe tuttavia invocare la giurisprudenza scaturita dalla sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a. (C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428), per ottenere eventualmente, da parte dello Stato membro, il risarcimento del danno subito."

LEGGI DI SEGUITO LA DECISIONE ...

 

Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 16:06 Leggi tutto...
 

La CEDU decide il ricorso Aielli e altri contro Italia

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La Corte europea dei diritti dell'uomo ha respinto , ritenendolo manifestamente infondato il ricorso di migliaia di pensionati italiani avverso la norma che ha ridotto l'adeguamento delle pensioni al costo della vita.

LEGGI DI SEGUITO LA DECISIONE DELLA CEDU ...

 

Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 16:15 Leggi tutto...
 

Vitalizi parlamentari: ecco il parere del CdS n. 2016 del 3/8/2018

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Il Consiglio di Stato ha espresso parere n. 2016/2018 circa la riforma della disciplina dei cosiddetti “vitalizi” spettanti ai parlamentari cessati dal mandato. Leggi di seguito il parere ...

Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 16:07 Leggi tutto...
 

Riflettere sulle incompatibilità con la professione forense

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L'art. 18, lettera d, della legge n. 247/2012 stabilisce che la professione di avvocato è incompatibile con qualunque attività di lavoro subordinato, anche se con orario di lavoro limitato.

Dunque, mentre a causa della sopra citata disposizione di legge e della legge 339/2003 non può più fare l'avvocato chi sia usciere di un ministero e come tale lavori a part time verticale al 30% (e in concreto sia impegnato un solo giorno  settimana come impiegato pubblico), può invece fare l'avvocato chi rivesta tutta una serie di posizioni di assoluto vertice in enti e consorzi pubblici e in società a capitale interamente pubblico (art. 18, lettera c, ultimo periodo, della legge 247/2012). Esempio di schifosa discriminazione all'italiana !

UN ESEMPIO DI ANALOGA DISCRIMINAZIONE ? MI VENGONO IN MENTE GLI AVVOCATI EBREI E LE LEGGI RAZZIALI FASCISTE !

Almeno le leggi razziali fasciste lasciavano la possibilità agli avvocati ebrei di continuare a difendere gli ebrei. La l. 339/2003, invece, ha travolto del tutto il diritto quesito dei dipendenti pubblici che, appunto per poter fare anche l'avvocato (come aveva consentito la legge 23 dicembre 1996, n. 662, articolo 1, commi 56, 56-bis e 57) avevano trasformato anni addietro il loro rapporto di lavoro pubblico in un rapporto a part time particolarmente ridotto: la l. 339/2003 (confermata dalla l. 247/2012) ha imposto la cancellazione dagli albi di questi avvocati.  Si torni in Corte costituzionale o il legislatore ci ripensi !

Per capire come mai sia giunto il momento di implemetare le professionalità interne alle pubbliche amministrazioni reintroducendo la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione di avvocato si legga la sentenza della Cassazione, sez. 5, n. 28684/2018. Tale sentenza chiarisce quando l'Agenzia delle entrate possa farsi assistere da avvocati del libero Foro ma, ai punti da 6 a 14, dà conto delle attuali gravi difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano per poter ricorrere agli avvocati del libero Foro sia nei gradi di merito che nel giudizio in Cassazione: ne risulta l'opportunità politica della reintroduzione della compatibilità suddetta.

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Ultimo aggiornamento Venerdì 30 Novembre 2018 12:46
 

Contributi figurativi: privilegio anche per avvocati nominati giudici della Corte costituzionale

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Nella trasmissione "Mezz'ora in più" del 15 aprile 2018, Tito Boeri avrebbe detto che ci sono oltre 1300 ex parlamentari che nel periodo in cui ricoprivano cariche elettive erano in aspettativa. A costoro i contributi datoriali sono stati pagati dall'Inps. Parliamo di persone che guadagnavano anche 100 mila euro. Noi come Inps abbiamo versato e versiamo, in termini di contributi figurativi, il 24% di queste retribuzioni. Tutto questo moltiplicato per 5 anni". Si tratta, dunque, conclude, "di una somma rilevante.

APPROFONDIAMO: La contribuzione figurativa è prevista in favore di tutti quei lavoratori che, al fine di svolgere una carica sindacale o elettiva pubblica, richiedono un periodo di aspettativa non retribuita dal lavoro (non è riconosciuta infatti in favore di chi non lavora al momento della proclamazione o di chi usufruisce dell'aspettativa durante rapporti di lavoro successivi ad essa). Questi contributi figurativi sono previsti e disciplinati dall'art 31 della legge n. 300/1970 e dall'art. 3 del dlgs. n. 564/1996. Insieme ai contributi obbligatori versati durante l'attività lavorativa, formano l'importo della pensione dei parlamentari. Questo beneficio, previsto inizialmente per i dipendenti del settore privato, venne esteso anche ai dipendenti pubblici con il dlgs. n. 29/1993 .

In particolare, il beneficio contributivo è previsto in favore di coloro che ricoprono una carica elettiva al Parlamento nazionale, Europeo, alle assemblee regionali e che sono iscritti: all'A.G.O (Gestione dei lavoratori dipendenti iscritti all'Assicurazione Generale Obbligatoria); ai Fondi Elettrici; a quelli del Trasporto Pubblico, Aereo e delle Ferrovie dello Stato; al Fondo Pensione Sportivi Professionisti (F.P.S.P); e ai Fondi Poste, Telefonici e Volo.

Per i lavoratori chiamati a svolgere altre funzioni pubbliche i contributi figurativi sono previsti solo per le cariche elettive, anche di secondo grado. Preesistendo il principio della preesistenza del rapporto di lavoro, colui che beneficia della contribuzione figurativa conserva la posizione assicurativa dopo il momento della proclamazione.

Recita il comma 1 dell'art. 38 della legge n. 488/1999 : "I lavoratori dipendenti dei settori pubblico e privato, eletti membri del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo o di assemblea regionale ovvero nominati a ricoprire funzioni pubbliche, che in ragione dell'elezione o della nomina maturino il diritto ad un vitalizio o ad un incremento della pensione loro spettante, sono tenuti a corrispondere l'equivalente dei contributi pensionistici, nella misura prevista dalla legislazione vigente, per la quota a carico del lavoratore, relativamente al periodo di aspettativa non retribuita loro concessa per lo svolgimento del mandato elettivo o della funzione pubblica. Il versamento delle relative somme, che sono deducibili dal reddito complessivo risultando ricomprese tra gli oneri di cui all'articolo 10, comma 1, lettera e), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, deve essere effettuato alla amministrazione dell'organo elettivo o di quello di appartenenza in virtù della nomina, che provvederà a riversarle al fondo dell'ente previdenziale di appartenenza".

Bisognerebbe allargare la valutazione critica anche ai contributi figurativi calcolati da Cassaforense a favore di quegli avvocati che sono nominati giudici della Corte costituzionale.

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Ultimo aggiornamento Lunedì 27 Agosto 2018 21:13
 

C'è cognizione generalizzata del CNF in materia di albi, elenchi e registri ?

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dalla newsletter di deontologia del CNF del 19/6/2018

Impugnazione dei provvedimenti in materia di albi, elenchi e registri: la giurisdizione del CNF è generalizzata

Secondo un’interpretazione estensiva, necessaria a dare coerenza al sistema ordinamentale forense, spetta al CNF la “cognizione generalizzata” in relazione a tutti i reclami avverso i provvedimenti che concernono l’iscrizione e la cancellazione da albi, elenchi e registri, tra i quali rientra il rilascio del nulla osta al trasferimento presso altro ordine (Nel caso di specie, in applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha motivatamente dissentito dalla precedente contraria giurisprudenza, anche di Legittimità, che aveva declinato la giurisdizione del C.N.F. a favore di quella del Giudice Amministrativo territorialmente competente).

Consiglio Nazionale Forense (pres. Mascherin, rel. Picchioni), sentenza del 23 settembre 2017, n. 123

Si legge nella sentenza del CNF questa motivazione che a mio avviso non è condivisibile, non essendo assolutamente accettabile una interpretazione estensiva della disposizione che fissa la giurisdizione di un giudice speciale, che secondo la costituzione era destinato a scomparire:

"In via preliminare deve esaminarsi d’ufficio l’ammissibilità del ricorso alla luce del principio della tipicità degli atti impugnabili avanti al C.N.F: il Consiglio ritiene qui di dover affermare l’esistenza della propria giurisdizione anche alla luce degli evolutivi e condivisibili principi affermati dal CdS nella sentenza n. 1010/2015.

La giurisprudenza precedente aveva affermato l’esistenza di una giurisdizione, per vero variegata, che andava da quella del Giudice ordinario in ipotesi di posizioni legate a diritti soggettivi (TAR Lombardia n. 1354/2014) a quella del TAR e del C.N.F. (quest’ultima secondo l’analitica previsione del R.D.L. 1578/1933).

Alla luce delle considerazioni che seguono il Consiglio Nazionale Forense ritiene di andare di diverso avviso rispetto alla propria precedente giurisprudenza (Cass. n. 25824/2009 e C.N.F. n. 21/2011 e 147/2007) che aveva sempre declinato la giurisdizione del C.N.F. a favore di quella del Giudice Amministrativo territorialmente competente.

Non può quindi non tenersi conto del fatto che una recente sentenza del C.d.S. ha condivisibilmente colto la necessità di dare coerenza al sistema ordinamentale forense pur deducendo in relazione a diverso provvedimento in materia di albi, elenchi e registri (la cancellazione di un avvocato dalle liste dei difensori d’ufficio), riconoscendo la giurisdizione del C.N.F., ed autorevolmente affermando che «il CNF aveva e ha una “cognizione generalizzata” in materia di tenuta e gestione di albi elenchi e registri» (Cons. Stato n. 1010/15).

Tale enunciato si fonda sul combinato disposto degli artt. 15 (“Albi, elenchi e registri”) e 36 L. 247/12, secondo il quale ultimo «Il CNF pronuncia sui reclami (…) in materia di albi, elenchi e registri (…) 6. Gli interessati e il pubblico ministero possono proporre ricorso avverso le decisioni del CNF alle sezioni unite della Corte di cassazione, entro trenta giorni dalla notificazione, per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge…».

Spettando al COA la tenuta di albi ed elenchi, «in modo simmetrico, [spetta] al CNF la giurisdizione speciale nella materia delle iscrizioni e delle cancellazioni da albi ed elenchi degli avvocati in maniera tale da dare coerenza al sistema della competenza giurisdizionale speciale professionale generalizzata in materia dello stesso CNF» in quanto «il mantenimento, in relazione al segmento di attività dei COA relativo alla tenuta e alla gestione delle liste dei difensori d'ufficio del Tribunale, di una competenza giurisdizionale amministrativa a questo punto "residuale" sulle questioni relative alla cancellazione o al diniego di iscrizione nelle liste suddette si manifesterebbe come disomogeneo e incoerente rispetto al sistema generale come sopra delineato venendosi a creare un irrazionale "frazionamento di tutela giurisdizionale" entro una medesima materia».

Risulta quindi del tutto coerente con il sistema professionale forense che la competenza giurisdizionale venga riconosciuta al C.N.F., Giudice speciale, in relazione a tutti i reclami avverso i provvedimenti che concernono l’iscrizione e la cancellazione da albi, elenchi e registri tra i quali rientra certamente il rilascio del nulla osta al trasferimento presso altro ordine che, appunto, costituisce “provvedimento... in materia di albi, elenchi e registri...” ex art. 36 L. n. 247/2012.

Deve quindi affermarsi il principio secondo il quale risulta di competenza del CNF l’impugnazione di ogni provvedimento suscettibile di incidere comunque sulla posizione “professionale” dell’iscritto, in quanto coinvolgente un diritto che attiene alle modalità di esercizio della professione forense.

Trattasi quindi di un’interpretazione estensiva - consentita in tema di riparto di giurisdizione (SS.UU. n. 23209/2009) – di quella cognizione del Consiglio Nazionale che la giurisprudenza ha affermato essere stata prevista del legislatore a salvaguardia dell’autonomia degli Ordini professionali stessi (C.d.S. n. 3414/2016)."

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Ultimo aggiornamento Giovedì 05 Luglio 2018 12:09
 

Avvocato: OK a lavoro subordinato per consulenza e assistenza legale stragiudiziale

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Il Consiglio Nazionale Forense (Commissione consultiva, relatore Cons. Salazar), con parere 22/6/2016, n. 77, ha risposto a quesito n. 210 posto dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Massa Carrara.

Questo il quesito del COA di Massa Carrara: "Se sussista l'incompatibilità tra l'iscrizione all'Albo degli Avvocati e l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato avente ad oggetto la consulenza e l'assistenza legale stragiudiziale, posto che l'art. 2, comma 6, della legge 247/2012 stabilisce che "...è comunque consentita l'instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata, aventi ad oggetto la consulenza e l'assistenza legale stragiudiziale, nell'esclusivo interesse del datore di lavoro o del soggetto in favore del quale l'opera viene prestata", e l'art. 18 comma unico lettera d) sancisce che "la professione di avvocato è incompatibile: ... d) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato".

La risposta del Consiglio Nazionale Forense è nei seguenti termini: "L'art. 2, comma 6, della legge n. 247/2012, recepisce all'interno della disciplina delle professioni di avvocato la figura del "giurista d'impresa", che pertanto non rientra nel regime delle incompatibilità di cui all'art. 18 della stessa legge."

Rilevo che il riferimento al "giurista d'impresa" è ingiustificatamente limitativo della compatibilità poichè la norma "comunque" ampliativa della compatibilità (e cioè l'art. 2, comma 6, della l. 247/2012) consente la prestazione del particolare lavoro subordinato o della particolare prestazione d'opera continuativa e coordinata non solo nell'esclusivo interesse del "datore di lavoro" ma anche nell'esclusivo interesse di un qualsiasi altro "soggetto in favore del quale l'opera viene prestata".

Si rammenti, ovviamente, che l'oggetto possibile della prestazione di lavoro o della prestazione d'opera continuativa e coordinata è solo "la consulenza e assistenza legale stragiudiziale".

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Ultimo aggiornamento Giovedì 05 Luglio 2018 12:10
 

Professori universitari (figli) e altri dipendenti pubblici (figliastri)

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Il MIUR in coordinamento con ANAC, con atto di indirizzo della Ministra Fedeli, pro. 39 del 14/5/2018, ha aggiornato il piano nazionale anticorruzione - sezione università. In particolare la parte terza dell'atto di indirizzo (da pag. 19 in poi) è finalizzata ad arginare il fenomeno del doppio lavoro dei docenti universitari. Vi si tratta degli “Istituti di particolare interesse per il sistema universitario e della ricerca”, con riguardo particolare alle situazioni di possibile conflitto di interessi.

Evidente è la disparità di trattamento tra i professori universitari nelle materie giuridiche, da una parte, e gli altri impiegati pubblici.

I primi sono privilegiati poichè possono fare i professori universitari a tempo parziale (c.d. tempo definito) e nel contempo anche la professione forense. I secondi sono penalizzati poichè non possono svolgere la professione forense neppure se trasformano il loro rapporto di lavoro in un part time al di sotto del 50%.

Ma a quanto pare i privilegiati non si accontentano: fanno spesso la libera professione senza passare al tempo definito !!!

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Ultimo aggiornamento Lunedì 27 Agosto 2018 21:39
 

La ratio del generale divieto di subordinazione del professionista legale

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da www.codicedeontologico-cnf.it

La ratio del generale divieto di subordinazione del professionista legale

Il generale divieto di subordinazione del professionista legale trova la sua ratio nella fondamentale esigenza di assicurarne autonomia di giudizio e libertà di orientamento, in ragione del rilievo – che attinge aspetti di rilevante interesse pubblico – della sua attività professionale. E’ pertanto ammessa in via del tutto eccezionale l’assunzione, quali lavoratori subordinati, di avvocati iscritti al relativo Albo professionale, a condizione che gli stessi vengano posti alle dirette ed esclusive dipendenze di una pubblica amministrazione, la qual ultima attribuisca loro, in via esclusiva, la trattazione dei propri affari legali. Consiglio di Stato, Sez. V (pres. Severini, rel. Perotti), sentenza del 7 giugno 2017, n. 2731

 

EVIDENTE LA DIFFERENZA DI OPINIONI TRA CONSIGLIO DI STATO E CORTE DI GIUSTIZIA UE (SENTENZA AKZO CHEMICALS / COMMISSIONE NEL PROCEDIMENTO C-97/08 P). PER APPROFONDIRE

Ultimo aggiornamento Venerdì 04 Maggio 2018 07:49
 

La CEDU si applica ai rapporti tra privati ? (di R.G. Conti)

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Riporto di seguito uno stralcio da un articolo di R.G. Conti pubblicato nella newsletter n. 67 del 15 marzo 2018 di www.europeanrights.eu

CLICCA SU "LEGGI TUTTO" ...

 

Ultimo aggiornamento Lunedì 27 Agosto 2018 21:40 Leggi tutto...
 

Cass. Sez. 6, ord. 1797/2018: rimeditare la natura del contributo di solidarietà

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La cassazione, sez. sesta (Ric. 2016 n. 01356), con ordinanza 1797/2018, pubblicata il 24/1/2018, ha ritenuto opportuna (attraverso trattazione in pubblica udienza e sollecitando la discussione delle parti e della Procura Generale) una rimeditazione, anche alla luce della pronuncia della Corte costituzionale n. 173 del 2016,  sulla natura stessa del contributo di solidarietà imposto dalle Casse professionali ai loro iscritti.

L'ordinanza  ha:

1) respinto le conclusioni della difesa del professionista ragioniere la quale aveva concluso per l'infondatezza del ricorso della Cassa richiamando Cass. 8 gennaio 2015, n. 53, Cass. 6 aprile 2016, n. 6702, Cass. 21 aprile 2016, n. 8064, Cass. 15 giugno 2016, n. 12338, Cass. 23 marzo 2017, n. 7568, Cass. 23/03/2017, n. 7516 (punto 13);

2) ritenuto degne di approfondimento le argomentazioni della ricorrente Cassa Ragionieri per cui:

"- i precedenti sopra citati non hanno tenuto adeguatamente in considerazione la circostanza che le norme che hanno introdotto ed applicato il contributo di solidarietà non sono provvedimenti amministrativi unilaterali dell'Ente previdenziale ma norme giuridiche che, grazie all'autonomia conferita dal d.lgs. n. 509/1994, sono idonee a derogare e ad abrogare disposizioni aventi rango legislativo con l'unico limite della ragionevolezza;

- il quantum di riduzione del trattamento pensionistico in ragione dell'applicazione del contributo di solidarietà (che è un contributo straordinario, di importo contenuto, limitato nel tempo e pur tuttavia finalizzato ad assicurare l'equilibrio finanziario di lungo termine e l'equità intergenerazionale, ispirato al criterio della gradualità, in relazione all'importo del trattamento pensionistico ed alla minore o maggiore incidenza del calcolo contributivo della pensione, non incidente sulla generalizzata categoria dei pensionati ma solo su quelli benefieiari del regime retributivo più favorevole - in termini di reddito - rispetto a quello contributivo, non incidente su anzianità contributive già maturate) non lede il principio di ragionevolezza".

LEGGI DI SEGUITO L'ORDINANZA DELLA SESTA SEZIONE CIVILE DELLA CASSAZIONE N. 1797/2018 ...

Ultimo aggiornamento Venerdì 23 Febbraio 2018 15:31 Leggi tutto...
 

Età o esperienza ? (A PROPOSITO DI UNA SENTENZA DEL 2012 DELLA CGUE SU DISCRIMINAZIONE INDIRETTA)

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La Corte di giustizia con la sentenza del 7.06.2012 (dunque ormai vecchiotta in relazione agli sviluppi della giurisprudenza della Corte) in causa C-132/11 ( Tyrolean Airways Tiroler Luftfahrt Gesellschaft mbH), sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, decise su due questioni pregiudiziali:

«1)      Se il diritto dell’Unione vigente, ed in particolare l’art. 21 della [Carta] (in combinato disposto con l’art. 6, n. 1, TUE), il principio generale di diritto dell’Unione (art. 6, n. 3, TUE) del divieto di discriminazioni fondate sull’età e gli artt. 1, 2 e 6 della direttiva 2000/78/CE ostino a una disciplina nazionale contenuta in un contratto collettivo che discrimini indirettamente i lavoratori più anziani in quanto prende in considerazione, ai fini della determinazione del livello di inquadramento nel contratto collettivo [della Tyrolean Airways] e quindi della retribuzione, soltanto le competenze e le conoscenze che essi hanno maturato come assistenti di volo presso una determinata compagnia aerea, e non anche le competenze e conoscenze sostanzialmente identiche acquisite presso un’altra compagnia aerea del medesimo gruppo. Se questo valga anche per i contratti di lavoro stipulati prima del 1° dicembre 2009.

2)      Se un giudice nazionale possa trattare come parzialmente nulla e disapplicare, in forza dell’effetto diretto orizzontale dei diritti fondamentali dell’Unione, una clausola di un contratto di lavoro individuale che si ponga indirettamente in contrasto con l’art. 21 della [Carta], con il principio generale di diritto dell’Unione del divieto di discriminazioni fondate sull’età e/o con gli artt. 1, 2 e 6 della direttiva 2000/78/CE, per analogia con la sentenza del 5 febbraio 2004, Rieser Internationale Transporte (C‑157/02, Racc. pag. I‑1477), e come nella giurisprudenza relativa agli accordi contrastanti con il diritto della concorrenza figurante nella sentenza del 25 novembre 1971, Béguelin Import (22/71, Racc. pag. 949)».

Per decidere affrontò due problemi:

Il primo problema atteneva all'individuazione della fonte normativa su cui fondare la decisione (se l'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali UE o la direttiva 2000/78/CE);

il secondo problema atteneva alla configurabilità o meno, nella fattispecie, di una discriminazione indiretta.

Fondamentale, in relazione al secondo problema, fu l'affermazione della Corte al punto 29 della sentenza: "29  Orbene, anche se una disposizione come quella il cui contenuto è esposto al punto 21 della presente sentenza può comportare una differenza di trattamento in funzione della data dell’assunzione da parte del datore di lavoro interessato, siffatta differenza non è, direttamente o indirettamente, fondata sull’età né su un evento legato all’età. Infatti, è l’esperienza eventualmente maturata da un assistente di volo presso un’altra compagnia dello stesso gruppo di imprese che non è presa in considerazione in occasione dell’inquadramento, indipendentemente dall’età di detto assistente di volo al momento della sua assunzione. La disposizione in esame si basa quindi su un criterio che non è né indissociabilmente (v., a contrario, sentenza del 12 ottobre 2010, Ingeniørforeningen i Danmark, C‑499/08, Racc. pag. I‑9343, punto 23), né indirettamente legato all’età dei dipendenti, anche se non è escluso che l’applicazione del criterio controverso possa, in taluni casi particolari, comportare per gli assistenti di volo interessati il passaggio dalla categoria lavorativa A alla categoria lavorativa B ad un’età più avanzata di quella degli assistenti che hanno maturato un’esperienza equivalente presso la Tyrolean Airways".

Mi sorge questo dubbio: visto che per la CGUE negare, da parte di un CCNL, una retribuzione maggiore ad un soggetto A soltanto perchè vanta una esperienza aggiuntiva SOSTANZIALMENTE IDENTICA rispetto a quella vantata da un altro soggetto B non è discriminazione indiretta per età, può anche affermarsi che non è discriminazione indiretta per età neanche il negare, da parte di un CCNL, una retribuzione maggiore ad un soggetto B soltanto perchè ha minore esperienza rispetto a quella QUANTOMENO DI LIVELLO PERFETTAMENTE IDENTICO a quella vantata da un altro soggetto A?

Altrimenti detto, un CCNL può creare due diversi livelli retributivi sia postulando irrilevante una maggiore SOSTANZIALMENTE IDENTICA esperienza sia, al contrario, postulando decisiva come unica giustificazione della diversa retribuzione una maggiore ESPERIENZA ANCHE SE DI PROFESSIONALITA' INFERIORE O AL MASSIMO IDENTICA?

Direi di no. Direi che non si può, per tal via, riconoscere ai CCNL di poter in concreto cancellare ogni contenuto del principio di non discriminazione indiretta per età. A ben vedere la sentenza Tyrolean Airways non avalla sempre e comunque la piena discrezionalità dei CCNL nel valutare a piacimento (col rischio di sottovalutare o sopravvalutare) l'esperienza a fini retributivi: la avalla solo in relazione al caso particolare sottoposto alla Corte, nel quale non sempre ma solo "in taluni particolari casi" il privilegio retributivo è attribuito a chi ha maggiore età.

In generale è vero che, come osserva Roberto Cosio (nell'articolo intitolato "Discriminazioni per età: le sentenze della Corte di giustizia C-141/11 e C-132/11") commentando la sentenza della CGUE in causa C-132/11, "Il mancato accertamento di una discriminazione indiretta è palesemente legato alla prospettazione della questione, basato sulla mancata considerazione, in occasione dell'inquadramento, dell'esperienza maturata da un assistente di volo presso un'altra compagnia dello stesso gruppo di imprese), considerato che nella specie non è stata adeguatamente valorizzata la valenza ipotetica della discriminazione indiretta (che si desume dalla formula "può mettere" utilizzata dalla direttiva) che avrebbe potuto consentire, in ipotesi, una diversa soluzione della questione (come si desume dall'inciso, finale, della decisione)."

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA SENTENZA DELLA CGUE NELLA CAUSA C-132/11 ...

 

Ultimo aggiornamento Venerdì 24 Novembre 2017 11:28 Leggi tutto...
 

CGUE (causa C-98/2015) su discriminazione indiretta in caso di part time verticale

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La Corte di giustizia (Quinta Sezione), con sentenza del 6/11/2017 in causa C-98/2015, ha dichiarato:

"1)      La clausola 4, punto 1,dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997, contenuta nell’allegato della direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, non è applicabile a una prestazione contributiva di disoccupazione come quella oggetto del procedimento principale.

2)      L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, dev’essere interpretato nel senso che osta ad una normativa di uno Stato membro che, nel caso di lavoro a tempo parziale verticale, escluda i giorni non lavorati dal calcolo dei giorni di contribuzione, con conseguente riduzione del periodo di erogazione della prestazione di disoccupazione, quando la maggior parte dei lavoratori a tempo parziale verticale sia costituita da donne che subiscano le conseguenze negative di tale normativa."

Si legge in sentenza:

"38      Per quanto riguarda la questione se una normativa come quella in esame nel procedimento principale realizzi, come suggerito dal giudice del rinvio, una discriminazione indiretta nei confronti delle donne, da costante giurisprudenza della Corte emerge che vi è discriminazione indiretta quando l’applicazione di un provvedimento nazionale, pur formulato in termini neutri, sfavorisca di fatto un numero molto più alto di donne che di uomini (sentenze del 20 ottobre 2011, Brachner, C‑123/10, EU:C:2011:675, punto 56 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 22 novembre 2012, Elbal Moreno, C‑385/11, EU:C:2012:746, punto 29).

...

43      Ciò considerato, è giocoforza concludere che una misura come quella oggetto del procedimento principale costituisce una disparità di trattamento a sfavore delle donne ai sensi della giurisprudenza richiamata al punto [38] supra.

44      Orbene, una misura di tal genere è contraria all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7, salvo che non risulti giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. Ciò avviene se i mezzi scelti rispondono ad uno scopo legittimo di politica sociale, se sono idonei a raggiungere tale obiettivo e se sono necessari a tal fine (v., in tal senso, sentenza del 22 novembre 2012, Elbal Moreno, C‑385/11, EU:C:2012:746, punto 32).

45      Nel caso di specie occorre rilevare che, sebbene la domanda di pronuncia pregiudiziale non contenga alcun riferimento all’obiettivo perseguito dalla misura in discussione nel procedimento principale, il Regno di Spagna ha fatto valere, all’udienza, che il principio del «contributo al sistema previdenziale» giustifica l’esistenza della disparità di trattamento constatata. Pertanto, poiché il diritto alla prestazione di disoccupazione e la durata di tale prestazione sono determinati esclusivamente in base al periodo durante il quale il lavoratore ha prestato la propria attività lavorativa o è stato iscritto al sistema di previdenza sociale, occorrerebbe, al fine di rispettare il principio di proporzionalità, tener conto unicamente dei giorni effettivamente lavorati.

46      A tal riguardo, e sebbene spetti in ultima analisi al giudice nazionale valutare se tale obiettivo sia effettivamente quello perseguito dal legislatore nazionale, è sufficiente rilevare che la misura nazionale oggetto del procedimento principale non sembra idonea a garantire la correlazione che, secondo il governo spagnolo, deve sussistere tra i contributi versati dal lavoratore e i diritti che questi può richiedere in materia di prestazione di disoccupazione.

47      Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 59 delle conclusioni, un lavoratore a tempo parziale verticale che abbia versato contributi per ogni giorno di tutti i mesi dell’anno riceve una prestazione di disoccupazione per un periodo di tempo inferiore rispetto a un lavoratore a tempo pieno che abbia versato gli stessi contributi. Pertanto, nei confronti del primo di questi due lavoratori, la correlazione invocata dal governo spagnolo non è manifestamente garantita.

48      Orbene, come osservato dall’avvocato generale al paragrafo 58 delle conclusioni, tale correlazione potrebbe essere garantita se, per quanto concerne i lavoratori a tempo parziale verticale, le autorità nazionali tenessero conto di altri elementi, quali ad esempio, il periodo durante il quale tali lavoratori e i loro datori di lavoro hanno versato i contributi, l’importo totale dei contributi versati o il cumulo delle ore di lavoro, e detti elementi, secondo le spiegazioni fornite dal giudice del rinvio, sono presi in considerazione per tutti i lavoratori il cui orario di lavoro è strutturato in modo orizzontale, a prescindere dal fatto che essi lavorino a tempo pieno o a tempo parziale.

49      Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, si deve rispondere alla terza questione dichiarando che l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7 dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro che, nel caso di lavoro a tempo parziale verticale, escluda i giorni non lavorati dal calcolo dei giorni di contribuzione, con conseguente riduzione del periodo di erogazione della prestazione di disoccupazione, quando la maggior parte dei lavoratori a tempo parziale verticale sia costituita da donne che subiscano le conseguenze negative di detta normativa."

L'Avvocato Generale Sharpstone aveva scritto ai paragrafi da 55 a 60 delle sue conclusioni:

"55.      Nelle sue osservazioni scritte la Spagna non si è espressa riguardo alla possibile giustificazione di un’eventuale discriminazione fondata sul sesso. Tuttavia, all’udienza del 15 giugno 2016 il governo spagnolo ha confermato che le sue osservazioni relative alla giustificazione della discriminazione ai sensi dell’accordo quadro dovevano essere considerate parimenti applicabili alla discriminazione fondata sul sesso. A suo parere, il principio del «contributo al sistema previdenziale» fornirebbe una giustificazione obiettiva per un’eventuale discriminazione. Poiché il diritto alla prestazione di disoccupazione e la durata di tale prestazione dipendono esclusivamente dal periodo per il quale il lavoratore è stato occupato o è stato iscritto al sistema di previdenza sociale, sarebbe incompatibile con il principio di proporzionalità non tenere conto dei giorni effettivamente lavorati.

56.      Non condivido tale posizione.

57.      Il giudice del rinvio precisa che l’obiettivo della prestazione contributiva di disoccupazione è fornire al lavoratore risorse sostitutive della retribuzione che non viene più percepita (articolo 204 della LGSS).

58.      A mio parere, tale obiettivo può essere raggiunto tenendo conto di quanto segue: i) il periodo durante il quale il lavoratore e il suo datore di lavoro versano i contributi, ii) l’importo di detti contributi e iii) l’orario di lavoro del lavoratore interessato (se si tratti di un lavoratore a tempo parziale o a tempo pieno). Secondo le spiegazioni fornite dal giudice del rinvio, il sistema spagnolo sembra effettivamente tenere conto proprio di tali fattori per i lavoratori a tempo pieno e per i lavoratori a tempo parziale «orizzontale». Tutti i lavoratori (che abbiano versato i contributi per uno stesso periodo di tempo) ricevono la prestazione di disoccupazione per lo stesso periodo. Tuttavia, una persona che lavori con un orario pari al 50% del tempo pieno percepirà una prestazione proporzionalmente ridotta, che riflette i minori contributi versati in base alla retribuzione inferiore corrispondente al tempo parziale. Ciò è perfettamente coerente con il principio «pro rata temporis» (32).

59.      Tuttavia, un lavoratore a tempo parziale «verticale» riceverà la prestazione per un periodo di tempo inferiore rispetto a un lavoratore a tempo pieno comparabile, anche qualora versi a sua volta i contributi per ogni giorno di tutti i mesi dell’anno. Il sistema tratta i due gruppi di lavoratori in modo diverso. Nel caso dei lavoratori a tempo parziale «verticale», esso dà rilevanza ai giorni effettivamente lavorati anziché al periodo di tempo che il lavoratore trascorre svolgendo il proprio lavoro nel corso di una settimana lavorativa.

60.      Ciò determina un’anomalia illogica e punitiva che svantaggia i lavoratori a tempo parziale «verticale». I lavoratori a tempo parziale che svolgono attività retribuite con compensi relativamente bassi, quali i lavori di pulizia, hanno poche possibilità di scelta riguardo alle loro condizioni di lavoro. Essi possono anche vedersi obbligati ad accettare un regime «verticale» che conviene al loro datore di lavoro solo per assicurarsi un impiego."

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA SENTENZA ...

Ultimo aggiornamento Venerdì 10 Novembre 2017 13:33 Leggi tutto...
 

Direttive opponibili a ente privato cui lo Stato dia compiti d'interesse pubblico e "superpoteri"

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La Corte di giustizia (Grande Sezione) supera la "giurisprudenza Foster" del 1990 e dichiara, in sentenza su causa C413/15, depositata il 10/10/2017, che:

"1)      L’articolo 288 TFUE deve essere interpretato nel senso che non esclude, di per sé, che le disposizioni di una direttiva idonee a produrre un effetto diretto siano opponibili a un ente che non sia dotato di tutte le caratteristiche enunciate al punto 20 della sentenza del 12 luglio 1990, Foster e a. (C‑188/89, EU:C:1990:313), lette congiuntamente a quelle indicate al punto 18 della medesima sentenza.

2)      Le disposizioni di una direttiva idonee a produrre un effetto diretto sono opponibili a un organismo di diritto privato cui sia stato demandato da uno Stato membro un compito di interesse pubblico, come quello inerente all’obbligo imposto agli Stati membri dall’articolo 1, paragrafo 4, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, come modificata dalla terza direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990, e che, a tal fine, disponga per legge di poteri che eccedono quelli risultanti dalle norme applicabili nei rapporti fra singoli, come il potere di imporre agli assicuratori che svolgono un’attività di assicurazione automobilistica nel territorio dello Stato membro interessato di affiliarsi a tale organismo e di finanziarlo."

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DELLA CGUE NELLA CAUSA FARREL CONTRO WHITTY ...

 

Ultimo aggiornamento Venerdì 13 Ottobre 2017 16:58 Leggi tutto...
 

Cass. 22925/2017 su part time verticale e permessi ex legge 104

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La Corte di Cassazione, sez. lavoro, con sentenza n. 22925/2017 (Presidente Bronzini Giuseppe - Relatore Pagetta Antonella), pubblicata il 29/09/2017, a proposito della fruizione (se integrale o riproporzionata i rapporto alla percentuale del part time) dei permessi di cui alla l. 104 da parte dei lavoratori in part time ha affermato: "appare ragionevole distinguere l'ipotesi in cui la prestazione di lavoro part time sia articolata sulla base di un orario settimanale che comporti una prestazione per un numero di giornate superiore al 50% di quello ordinario, da quello in cui comporti una prestazione per un numero di giornate di lavoro inferiori, o addirittura limitata solo ad alcuni periodi nell'anno e riconoscere, solo nel primo caso, stante la pregnanza degli interessi coinvolti e l'esigenza di effettività di tutela del disabile, il diritto alla integrale fruizione dei permessi in oggetto."

LEGGI DI SEGUITO I FATTI DI CAUSA E I MOTIVI DELLA DECISIONE ...

 

Ultimo aggiornamento Mercoledì 04 Ottobre 2017 09:20 Leggi tutto...
 

In permesso ex legge 104 maturano ferie

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La sezione lavoro della Cassazione, con ordinanza 14187/2017, pubblicata il 7/6/2017, ha deciso che i permessi di cui all'art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 non incidono negativamente nel computo delle ferie. In particolare, ha "CONSIDERATO ...

Che ciò di cui si discute è la limitazione della computabilità, ai fini delle ferie, dei permessi di cui all'art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

Che questa Corte nel decidere una analoga controversia relativa alla computabilità di detti permessi ai fini della tredicesima mensilità, rispetto alla quale analogamente che per le ferie e con rinvio all'art. 7 della legge 1204 del 1971 poi trasfusa nel d.lgs n. 151 del 2001, ha ritenuto che "la limitazione della computabilità (....) dei permessi di cui all'art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, in forza del richiamo operato dal successivo comma 4 all'ultimo comma dell'art. 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (abrogato dal d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, che ne ha tuttavia recepito il contenuto negli artt. 34 e 51), opera soltanto nei casi in cui essi debbano cumularsi effettivamente con il congedo parentale ordinario - che può determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa - e con il congedo per malattia del figlio, per i quali compete un'indennità inferiore alla retribuzione normale (diversamente dall'indennità per i permessi ex lege n. 104 del 1992 commisurata all'intera retribuzione), risultando detta interpretazione idonea ad evitare che l'incidenza sulla retribuzione possa essere di aggravio della situazione dei congiunti del portatore di handicap e disincentivare l'utilizzazione del permesso." (cfr. Cass. 07/07/2014 n. 15345).

Che il giudice di appello con argomentazioni conformi a quanto affermato da questa Corte nella richiamata sentenza ha ritenuto che nel caso specifico i permessi, accordati per l'assistenza al genitore portatore di handicap, concorressero nella determinazione dei giorni di ferie maturati dal lavoratore che ne ha beneficiato.

Che infatti, il diritto alle ferie assicurato dall'art. 36, u.c. garantisce il ristoro delle energie a fronte della prestazione lavorativa svolta, e che tale ristoro si rende nei fatti necessario anche a fronte dell'assistenza ad un invalido, che comporta un aggravio in termini di dispendio di risorse fisiche e psichiche.

Che inoltre sotto il profilo sistematico, determinante è la considerazione che i permessi per l'assistenza ai portatori di handicap poggiano sulla tutela dei disabili predisposta dalla normativa interna - ed in primis dagli artt. 2, 3, 38 Cost. - ed internazionale - quali sono la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 3 marzo 2009, n. 18. Significativamente, la Convenzione ONU prevede il sostegno e la protezione da parte della società e degli Stati non solo per i disabili, ma anche per le loro famiglie, ritenute strumento indispensabile per contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità (v. in particolare il punto x del preambolo e l'art. 19, punto b, art. 23, comma 3, art. 28, comma 1 e comma 2, lett. c).

Che ragioni di coerenza con la funzione dei permessi e con i principi indicati impongono quindi l'interpretazione della disposizione maggiormente idonea ad evitare che l'incidenza sull'ammontare della retribuzione possa fungere da aggravio della situazione economica dei congiunti del portatore di handicap e disincentivare l'utilizzazione del permesso stesso (soluzione che trova conforto nel parere n. 3389 del 9/11/2005 del Consiglio di Stato, richiamato dalla Corte d'appello)."

Ultimo aggiornamento Domenica 01 Ottobre 2017 18:24
 

Fabian c Ungheria: sentenza su violazione di art. 14 CEDU in relazione a art 1 del protocollo 1

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La Corte EDU, in data 5/9/2017, ha emesso sentenza sul caso Fabian c Ungheria (78117/13). Ha deciso che la sospensione della pensione di un funzionario pubblico che continuava a lavorare nel settore pubblico non è violazione dell'art. 14 CEDU in congiunzione coll'art. 1 del Protocollo n. 1.

VEDI PERO' LE ARGOMENTAZIONI DEI GIUDICI DISSENZIENTI.

Ultimo aggiornamento Martedì 19 Settembre 2017 11:02
 

Cass. SS.UU. 16993/2017 riconosce (implicitamente) che il CNF non è giudice terzo

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Antonino Ciavola, commentando SS.UU. 16993/2017 conclude affermando: "Non possiamo trascurare l'avvertimento: un CNF senza apposita sezione disciplinare rischia di emettere sentenze in violazione del principio di terzietà, con le conseguenze che i commentatori più accorti non possono trascurare".

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DELLE SS.UU. CIVILI DELLA CASSAZIONE N. 16993/2017...

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 03 Agosto 2017 07:39 Leggi tutto...
 

La GCUE (C-354/16) valuta IN SPIRITO DI COLLABORAZIONE se c'è discriminazione indiretta per età

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La CGUE, nella sentenza del 13/7/2017 in causa C-354/16, afferma al punto 59: "Spetta al giudice del rinvio, l’unico a possedere una conoscenza diretta della causa di cui è investito, effettuare le verifiche necessarie al fine di stabilire se la normativa oggetto del procedimento principale sia, concretamente e al di là di circostanze aleatorie, atta a comportare una differenza di trattamento indirettamente fondata non sull’anzianità di servizio, ma sull’età".

Cionondimeno, ai punti 63 da 63 a 67, "nell'ambito della procedura di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte istituita dall'art. 267 TFUE"(vedi punto 61) esamina tutto il fascicolo sottoposto dal giudice del rinvio per rispondere al quesito pregiudiziale inerente la sussistenza o meno di una discriminazione indiretta per età.

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA SENTENZA DELLA CGUE IN CAUSA C-354/16 ...

Ultimo aggiornamento Lunedì 24 Luglio 2017 14:45 Leggi tutto...
 

CGUE sentenza Abercrombie (C-143/16): le parti sociali devono rispettare la direttiva 2000/78/CE

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La Corte di giustizia, con sentenza del 19/7/2017 nella causa Abercrombie (C-143/16), ha dichiarato che:

"L’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché l’articolo 2, paragrafo 1, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari."

Certo, riconosce la Corte, la licenziabilità del lavoratore al compimento del venticinquesimo anno introduce una differenza di trattamento fondata sull’età, ma tale differenza di trattamento è giustificata dal fine di favorire l’occupazione dei giovani (normalmente penalizzati per l’assenza di esperienza professionale). La finalità legittima è stata individuata nell'agevolatzione dell'ottenimento di un lavoro che, pur non essendo stabile, costituisca comunque una prima esperienza di lavoro (trattata -finchè dura- in maniera complessivamente non meno favorevole rispetto al trattamento riservato ad un lavoratore stabile).

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA NELLA CAUSA C-143/16 (le sottolineature sono mie) ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 25 Luglio 2017 17:01 Leggi tutto...
 

Corte cost. 111/2017: inammissibile qlc se il giudice può disapplicare la norma per primazia UE

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Corte cost. 111/2017 del 12/5/2017 dichiara inammissibile la dedotta questione di illegittimità costituzionale fondata sulla violazione di alcune norme del Trattato e degli articoli 20 e 21 della Carta dei diritti dell'UEa causa di discriminazione in virtù di collocamento a riposo forzato di lavoratrice pubblica, posto che il giudice, alla luce del diritto dell'Unione richiamato, ben poteva disapplicare la norma interna ritenuta contrastante con esso.

Si legge nella sentenza:

"3.– Le questioni sono tuttavia, inammissibili per i motivi di seguito illustrati. È preliminare la considerazione del fatto che il rimettente, nel sollevare le questioni relative alla violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ha prospettato il contrasto con norme di diritto dell’Unione europea, alcune delle quali sicuramente provviste di efficacia diretta.

In particolare, il principio di parità retributiva tra uomini e donne, incardinato nel Trattato di Roma fin dall’istituzione della Comunità economica europea come principio fondante del mercato comune nonché come uno degli «scopi sociali della Comunità, […] che […] non si limita all’unione economica» (Corte di giustizia, sentenza 8 aprile 1976, in causa C-43-75, Gabrielle Defrenne contro Sabena, punti da 7 a 15), è stato ritenuto dalla stessa Corte di giustizia vincolante per i soggetti pubblici e privati, perché volto a impedire pratiche discriminatorie lesive della libera concorrenza e dei diritti fondamentali dei lavoratori. L’efficacia diretta di tale principio, sancita con la citata sentenza Defrenne (punti 4/40) e ribadita nel corso degli anni dalla Corte di Lussemburgo (ex plurimis, sentenze: 27 marzo 1980, in causa 129/79, Macarthys LTD contro Wendy Smith, punto 10; 31 marzo 1981, in causa 96/80, J.P. Jenkins contro Kingsgate LTD, punti da 16 a 18; 7 febbraio 1991, in causa C-184/89, Helga Nimz contro Freie und Hansestadt Hamburg, punto 17), fa nascere per il giudice nazionale l’obbligo di non applicare la norma di diritto interno confliggente con il diritto europeo. La stessa Corte di giustizia ha altresì precisato come l’efficacia diretta del principio della parità di retribuzione non possa essere intaccata da alcuna normativa di attuazione, sia essa nazionale o comunitaria (in tale senso, le citate sentenze Defrenne, punti 61/64, e Jenkins, punto 22).

Questo principio è stato poi corroborato dall’evolvere del quadro normativo: l’Unione «promuove» la parità tra donne e uomini (art. 3, comma 3, del Trattato sull’Unione europea) e conferma un tale impegno nelle sue «azioni» (art. 8 TFUE).

Anche l’art. 21 della CDFUE vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata […] sul sesso», mentre l’art. 23 della stessa Carta dispone che «La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione». Entrambe queste norme in tanto si possono richiamare in quanto si verta in una materia di attuazione, da parte dello Stato, del diritto dell’Unione, secondo le rispettive competenze (art. 51, comma 1, della medesima CDFUE).

Il giudice rimettente, ritenendo che la normativa censurata contrasti con l’art. 157 del TFUE, anche alla luce della citata giurisprudenza della Corte di giustizia che ha riconosciuto a tale norma efficacia diretta, avrebbe dovuto non applicare le disposizioni in conflitto con il principio di parità di trattamento, previo ricorso, se del caso, al rinvio pregiudiziale, ove ritenuto necessario, al fine di interrogare la medesima Corte di giustizia sulla corretta interpretazione delle pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione e, quindi, dirimere eventuali residui dubbi in ordine all’esistenza del conflitto (sentenze n. 226 del 2014, n. 267 del 2013, n. 86 e n. 75 del 2012, n. 227 e n. 28 del 2010, n. 284 del 2007; ordinanze n. 48 del 2017 e n. 207 del 2013). Questo percorso, una volta imboccato, avrebbe reso superflua l’evocazione del contrasto con i parametri costituzionali in sede di incidente di legittimità costituzionale. L’art. 157 del TFUE, direttamente applicabile dal giudice nazionale, lo vincola all’osservanza del diritto europeo, rendendo inapplicabile nel giudizio principale la normativa censurata e, perciò, irrilevanti tutte le questioni sollevate.

La non applicazione delle disposizioni di diritto interno, non equiparabile in alcun modo a ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità delle stesse (sentenza n. 389 del 1989), rientra, in effetti, tra gli obblighi del giudice nazionale, vincolato all’osservanza del diritto dell’Unione europea e alla garanzia dei diritti che lo stesso ha generato, con il solo limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona.

4.– Si deve aggiungere che la complessità della materia, così come emerge dalle disposizioni censurate e dal quadro normativo in cui esse si inseriscono, avrebbe potuto tanto più indirizzare il giudice rimettente verso la strada del rinvio pregiudiziale, al fine di verificare l’effettiva incompatibilità della normativa interna con il diritto a una effettiva parità di trattamento tra lavoratori uomini e donne.

In tale prospettiva, anziché muovere dall’assunto secondo cui il limite di età per il collocamento a riposo degli impiegati pubblici, a decorrere dal 1° gennaio 2012, sarebbe stato elevato dall’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 a sessantasei anni, il giudice a quo ben avrebbe potuto considerare che, come precisato dalla disposizione di interpretazione autentica di cui all’art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 101 del 2013, il detto limite di età continua ad assestarsi, sia per gli uomini sia per le donne, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, «limite ordinamentale» stabilito dall’art. 4, primo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, per il collocamento a riposo degli impiegati civili dello Stato.

Ciò nonostante, il dipendente pubblico che, raggiunti i sessantacinque anni, non abbia maturato i requisiti di età (o di anzianità contributiva) per conseguire il diritto alla pensione, può, secondo lo stesso art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 101 del 2013, chiedere di rimanere in servizio anche oltre l’età di collocamento a riposo, fino al conseguimento del requisito anagrafico per il diritto alla pensione di vecchiaia e, quindi, per i lavoratori di sesso maschile che si trovino in una situazione analoga a quella della ricorrente nel giudizio a quo, fino all’età di sessantasei anni e tre mesi.

La coincidenza dell’estinzione del rapporto di lavoro con la diversa età pensionabile di uomini e donne potrebbe lasciar intravvedere una discriminazione a danno di queste ultime e un potenziale contrasto con disposizioni di diritto dell’Unione europea (Corte di giustizia, sentenze 26 febbraio 1986, in causa 262/84, Vera Mia Beets-Proper contro F. Van Lanschot Bankiers NV, punti 34-35, e 18 novembre 2010, in causa C-356/09, Pensionversicherungsanstalt contro Christine Kleist, punto 46).

Il diritto europeo secondario, in particolare, la direttiva n. 2006/54/CE – che, in maniera riduttiva, il rimettente richiama per la sola definizione di discriminazione diretta – specifica, del resto, che nelle disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento sono da includere quelle che si basano sul sesso per «stabilire limiti di età differenti per ilcollocamento a riposo» (art. 9, comma 1, lettera f, inserito nel Capo 2, dedicato alla «Parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale») e che è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto attiene «all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione come previsto dall’art. 141 del trattato» (art. 14, comma 1, lettera c, inserito, invece, nel Capo 3, dedicato alla «Parità di trattamento per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro»)."

 

Ultimo aggiornamento Martedì 18 Luglio 2017 16:28
 

Conclusioni dell'Avvocato Generale Bobek nella causa Abercrombie (C-143/16)

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Nella causa innanzi alla Corte di Giustizia C-143/2016 (Abercrombie & Fitch Italia Srl contro Antonino Bordonaro) l'Avvocato generale Bobek ha depositato, il 23/3/2017, le sue conclusioni. L'Avvocato generale ha proposto alla Corte di rispondere alla questione sollevata dalla Corte suprema di cassazione italiana come segue:

"L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una disposizione nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che prevede che i contratti di lavoro intermittente siano applicabili in ogni caso ai lavoratori con meno di venticinque anni di età a condizione che:

–        la normativa in parola persegua una finalità legittima collegata alla politica dell’occupazione e del mercato del lavoro, e

–        raggiunga tale finalità con mezzi appropriati e necessari.

Spetta al giudice nazionale stabilire se dette condizioni siano soddisfatte nel caso di specie."

 

LEGGI DI SEGUITO LE CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE BOBEK NELLA CAUSA C-143/16 (le sottolineature e il grassetto sono miei) ...

Ultimo aggiornamento Giovedì 20 Luglio 2017 10:10 Leggi tutto...
 

Corte cost. 166/2017: inammissibile q.l.c. per retroattività di legge su "pensioni svizzere"

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Con ordinanza 4881 dell'11/3/2015 la quarta sezione Lavoro della Cassazione aveva sollevato q.l.c. dell'art. 1, comma 777, della l. 296/2006 per violazione dell'art. 117,comma 1, Cost. in relazione all'art. 6 della CEDU e all'art. 1 del Protocollo aggiuntivo n. 1. La q.l.c. era basata sulla sentenza Stefanetti della Corte di Strasburgo e censurava la applicazione retroattiva di una norma di legge deteriore in materia pensionistica per il fatto che tale applicazione retroattiva è fatta senza che sussista equilibrio del sistema pensionistico e senza che richiesta da impellenti motivi di interesse generale.

La Corte costituzionale ha deciso per l'inammissibilità della qlc con sentenza 166/2017, stante la non unicità della soluzione costituzionalmente legittima del problema.

Importante quanto la Corte scrive al punto 7 e 8 del "considerato in diritto":

7.– Quale sia la soglia al di sotto della quale la riduzione delle cosiddette “pensioni svizzere”, ex art. 1, comma 777, della citata legge n. 296 del 2006, venga a ledere il diritto dei lavoratori al “bene” della vita rappresentato dal credito relativo a pensione, non è però indicato, in termini generali, nella sentenza “Stefanetti”.

La Corte EDU fa bensì riferimento ad una riduzione comportante una perdita di circa due terzi della pensione, ma – come detto – solo con specifico riferimento alle pensioni dei singoli ricorrenti ed in esito ad una valutazione che tiene, tra l’altro, conto, quali «elementi pertinenti», dei lunghi periodi da quei soggetti trascorsi in Svizzera, della entità dei contributi ivi versati, della loro categoria lavorativa di appartenenza e della qualità dei rispettivi stili di vita, il cui godimento essa Corte ritiene in concreto “ostacolato in modo sostanziale” e non proporzionato, perché implicante un “onere eccessivo” che soggetti che hanno versato contributi per tutta la vita sono costretti a sopportare.

L’indicazione di una soglia (fissa o proporzionale) e di un non superabile limite di riducibilità delle “pensioni svizzere” – ai fini di una reductio ad legitimitatem della disposizione impugnata, che ne impedisca l’incidenza su dette pensioni in misura che risulti lesiva degli evocati precetti convenzionali e nazionali –, come pure l’individuazione del rimedio, congruo e sostenibile, atto a salvaguardare il nucleo essenziale del diritto leso, sono comunque necessarie, ma presuppongono, evidentemente, la scelta tra una pluralità di soluzioni rimessa, come tale, alla discrezionalità del legislatore.

8.– La questione sollevata è, pertanto, allo stato inammissibile. Ma nel dichiararla tale, questa Corte deve tuttavia affermare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema segnalato dalla Corte di Strasburgo."

Per far meglio valere il tuo diritto al libero lavoro intellettuale aderisci al gruppo aperto"concorrenzaeavvocatura" su facebook (contano già centinaia di adesioni). Unisciti ai tanti che rivendicano una vera libertà di lavoro intellettuale per gli outsiders e, finalmente, il superamento del corporativismo nelle professioni...

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 166/2017 ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 25 Luglio 2017 17:42 Leggi tutto...
 

United Kingdom Supreme Court sulla nozione di discriminazione indiretta

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La United Kingdom Supreme Court, con sentenza del 5 aprile 2017  (Essop and others v. Home Office) si sofferma sulla nozione di discriminazione indiretta e sulla connessione causale che sussiste tra il criterio, che genera un particolare svantaggio, e il trattamento deteriore subito dal gruppo protetto.

Ultimo aggiornamento Martedì 18 Luglio 2017 13:53
 

Responsabile lo Stato membro se direttiva UE è mal trasposta da privato "emanazione dello Stato"

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L'Avvocato generale della CGUE Eleanor Sharpston , nelle sue conclusioni in causa C-413/15 (Farrel) depositate il 22/6/2017, chiarisce quando uno Stato membro è responsabile per cattiva trasposizione di direttiva imputabile a ente privato. Si sofferma sulla definizione di "emanazione dello Stato" ai fini della determinazione della responsabilità dello Stato membro per aver omesso di trasporre una direttiva in maniera adeguata.

LEGGI QUI LE CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE.

Ultimo aggiornamento Martedì 18 Luglio 2017 16:54
 

Rinvio pregiudiziale: la Corte di giustizia chiarisce i requisiti requisiti

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Si legge nella sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea del 13/7/17 in causa C-89/16:

46 Con la terza questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 72 del regolamento di base debba essere interpretato nel senso che le decisioni della commissione amministrativa hanno un carattere vincolante.

47 Occorre ricordare, a tale proposito, che, secondo costante giurisprudenza, il procedimento delineato dall’articolo 267 TFUE è uno strumento di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi d’interpretazione del diritto dell’Unione necessari per risolvere la controversia che essi sono chiamati a dirimere (ordinanza del 20 luglio 2016, Stanleybet Malta e Stoppani, C‑141/16, non pubblicata, EU:C:2016:596, punto 6 e giurisprudenza ivi citata).

48 Risulta parimenti da costante giurisprudenza che l’esigenza di giungere ad un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo definisca l’ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi almeno le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate. La decisione di rinvio deve inoltre indicare le ragioni precise che hanno indotto il giudice nazionale ad interrogarsi sull’interpretazione del diritto dell’Unione e a ritenere necessaria la presentazione di una questione pregiudiziale alla Corte (ordinanza del 20 luglio 2016, Stanleybet Malta e Stoppani, C‑141/16, non pubblicata, EU:C:2016:596, punto 7 e giurisprudenza ivi citata).

49 Si deve sottolineare, a questo proposito, che le informazioni contenute nelle decisioni di rinvio servono non solo a consentire alla Corte di fornire soluzioni utili, bensì anche a dare ai governi degli Stati membri e alle altre parti interessate la possibilità di presentare osservazioni ai sensi dell’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. Spetta alla Corte provvedere affinché tale possibilità sia garantita, tenuto conto del fatto che, a norma della suddetta disposizione, soltanto le decisioni di rinvio vengono notificate alle parti interessate (ordinanza del 20 luglio 2016, Stanleybet Malta e Stoppani, C‑141/16, non pubblicata, EU:C:2016:596, punto 10 e giurisprudenza ivi citata).

50 Nella specie, si deve constatare che la terza questione non soddisfa tali requisiti, in quanto la decisione di rinvio non contiene sufficienti elementi di fatto sull’esistenza di una decisione precisa della commissione amministrativa e sull’eventuale incidenza di tale decisione sul procedimento principale. Di conseguenza, la Corte non dispone di elementi relativi alle ragioni per le quali l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta è necessaria ai fini della risposta a tale questione. In tali circostanze, gli Stati membri e gli altri interessati, ai sensi dell’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, non hanno potuto, o hanno potuto solo molto sommariamente, presentare utilmente le loro osservazioni su detta questione.

51 Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve concludere che la terza questione è irricevibile.

Ultimo aggiornamento Lunedì 17 Luglio 2017 10:55
 

Corte cost. 164/2017 ricorda le sentenze CGUE su responsabilità dello Stato giudice

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Corte cost. 164/2017, al punto 5.2 del "considerato in diritto", richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia sulla responsabilità dello Stato giudice per violazione del diritto dell'Unione.

LEGGI DI SEGUITO IL PUNTO 5.2 DEL "CONSIDERATO IN DIRITTO" ...

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Corte cost. 164/2017 disvela l'incostituzionalità del CNF giudice speciale

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Si legge al punto 3.6 della sentenza della Corte costituzionale 164/2017, depositata il 12/7/2017:

"3.6.– Più in generale, va riconosciuto, tuttavia, che un sistema che non garantisse un adeguato presidio istituzionale in capo alla posizione del giudice si presenterebbe, a sua volta, fortemente asintonico rispetto a quel rigoroso presupposto di legalità a cui il giudice è costituzionalmente tenuto.

Il ruolo del giudice, nell’architettura costituzionale della giurisdizione, appare infatti peculiare, non potendosi escludere a priori che norme, pur non immediatamente applicabili nel processo, vadano ad incidere in maniera evidente ed attuale sulle garanzie costituzionali della funzione giurisdizionale, così condizionando l’esercizio della relativa attività. Ciò tuttavia presuppone che tale incidenza – per qualità, intensità, univocità ed evidenza della sua direzione, immediatezza ed estensione dei suoi effetti – sia tale da determinare una effettiva interferenza sulle condizioni di indipendenza e terzietà nel decidere, a prescindere da qualsiasi profilo che possa riguardare un eventuale “perturbamento psicologico” del singolo giudice.

Di là da questa prospettiva, ai fini della rilevanza occorrerà ulteriormente verificare se la norma asseritamente interferente sullo status di magistrato ne comprometta o possa comprometterne l’indipendenza e la terzietà in relazione alla concreta regiudicanda posta al suo esame ed alla specifica e conseguente decisione che è chiamato ad adottare nel giudizio a quo. Presupposti questi – che non è dato rinvenire nelle odierne questioni, alla luce della stessa motivazione sulla rilevanza fornita dai giudici a quibus in relazione all’attuale sistema normativo sulla responsabilità civile del giudice."

MI DOMANDO: IL CNF -CHE FORNISCE PARERI GIURIDICI AI CONSIGLI DEGLI ORDINI DEGLI AVVOCATI SU QUESTIONI RELATIVE ALL'AGIRE AMMINISTRATIVO DEI MEDESI CONSIGLI DEGLI ORDINI IN MATERIA DISCIPLINARE E DI TENUTA DEGLI ALBI- COME PUO' CONSIDERARSI GIUDICE TERZO DI QUEI MEDESIMI PROVVEDIMENTI CHE HA IN SOSTANZA DETERMINATO ?

MI PARE NON CONDIVISIBILE L'AFFERMAZIONE FATTA IN SENTENZA N. 16693 DEL 10/7/2017 (pres. Rordorf, rel. Cirillo) DELLE SEZIONI UNITE CIVILI DELLA CASSAZIONE PER CUI L'ATTUALE ASSETTO DEL CNF RISULTA COMPATIBILE CON I PRINCIPI COSTITUZIONALI DI TERZIETA' ED IMPARZIALITA' DEL GIUDICE (LE SS.UU. SOSTENGONO CHE LA PECULIARE POSIZIONE DEL CNF-GIUDICE SPECIALE VALE DA SOLA AD ESCLUDERE CONDIZIONAMENTI DA PARTE DI ORGANI AMMINISTRATIVI IN POSIZIONE SOVRAORDINATA).

In senso conforme a SS.UU. 16693/2017, tra le altre, Corte di Cassazione (pres. Miani Canevari, rel. San Giorgio), SS.UU, sentenza n. 12064 del 29 maggio 2014, Corte di Cassazione (pres. Rordorf, rel. Mazzacane), SS.UU, sentenza n. 775 del 16 gennaio 2014, Corte di Cassazione (pres. Roselli, rel. Mazzacane), SS.UU, sentenza n. 776 del 16 gennaio 2014.
Del medesimo avviso, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Logrieco, rel. Losurdo), sentenza del 14 aprile 2016, n. 75, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. De Giorgi), sentenza del 10 giugno 2014, n. 87, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Morlino), sentenza del 18 luglio 2013, n. 111

PER LEGGERE LA SENTENZA CASS. SS.UU. 16693/2017 CLICCA DI SEGUITO

La composizione e le funzioni giurisdizionali del CNF sono conformi ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità del giudice

 

 

Ultimo aggiornamento Venerdì 14 Luglio 2017 09:56
 

CdS 2533/2017: si applica il rito degli appalti anche in caso di affidamenti diretti in house

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Si applica il rito degli appalti in caso di affidamenti in house?

Risponde il CdS con la sentenza 2533/2017.

Si legge sul sito della giustizia amministrativa:

"Il rito appalti si applica anche agli affidamenti in house di contratti pubblici

Cons. St., sez. V, 29 maggio 2017, n. 2533

Processo amministrativo – Rito appalti – Termine dimidiato impugnazione atti di gara – Affidamenti in house di contratti pubblici – Art. 120 c.p.a. – Applicabilità.

Anche le impugnazioni di affidamenti in house di contratti pubblici di lavori servizi e forniture siano soggetti al “rito appalti” di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a., con il corollario del dimezzamento del termine per proporre il ricorso di primo grado, ai sensi del comma 5 di quest’ultima disposizione (1).

(1) La Sezione è giunta a tale conclusione in primo luogo sulla base dell’ampiezza delle formule impiegate dal legislatore “procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture” e “atti delle procedure di affidamento”, utilizzate nelle disposizioni del codice del processo amministrativo.  Esse si incentrano sul concetto di “procedure”, che nella sua latitudine è idonea a racchiudere tutta l’attività della Pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia, che si manifesta attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo. Con specifico riguardo alla materia degli affidamenti di contratti di lavori servizi e forniture, il concetto di “procedure” è pertanto idoneo ad individuare nel suo complesso la fase che precede la stipula del contratto, allorché, invece, l’amministrazione dismette i propri poteri autoritativi per assumere la qualità di parte di un negozio giuridico bilaterale di diritto privato, fonte di un rapporto di natura paritetica con l’appaltatore o il concessionario.

Ha aggiunto la Sezione che quand’anche estrinsecatosi uno actu, anche l’affidamento in house di contratti pubblici è sempre espressione della presupposta potestà autoritativa della Pubblica amministrazione, manifestatasi nelle forme del procedimento amministrativo cui quest’ultima è soggetta in via generale nell’esercizio dei suoi poteri, ancorché in tesi con modalità estremamente semplificate. La tesi contraria introdurrebbe una distinzione incentrata non già sul profilo di ordine qualitativo legato al settore di attività della Pubblica amministrazione - affidamento di contratti di lavori, servizi e forniture -, ma sulle concrete modalità con cui quest’ultima è addivenuta a tale affidamento, con il rischio di rendere non agevole il discrimine tra rito ordinario e rito speciale.

Ad avviso della Sezione, oltre all’argomento di ordine letterale finora svolto, e sulla base di esso, deve ritenersi che anche sul piano dell’interpretazione logica (avuto cioè riguardo all’”intenzione del legislatore”) gli affidamenti in house siano soggetti al rito “appalti”.  Depone in questo senso la comunanza ai contratti così stipulati delle esigenze sottese a questo speciale procedimento giurisdizionale, e cioè la spiccata celerità e la pienezza di tutela assicurata dai provvedimenti adottabili ai sensi degli artt. 120 – 124 c.p.a.. Tra questi vi è in particolare la possibilità per il giudice di dichiarare l’inefficacia del contratto stipulato sulla base del provvedimento autoritativo di affidamento e dunque di incidere sul rapporto negoziale già instaurato “a valle” di quest’ultimo. Da questa ampiezza di poteri e dalle conseguenti ricadute su assetti contrattuali già instauratisi si coglie pertanto la necessità sul piano logico e di complessiva coerenza normativa di assoggettare anche gli affidamenti in house al rito concernente in generale i contratti di lavori, servizi e forniture. In caso contrario, rimarrebbero immuni dal rischio di declaratoria giurisdizionale di inefficacia proprio gli affidamenti connotati maxime dalla violazione del principio generale, di matrice anche europea, dell’evidenza pubblica."

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO N. 2533/2017 ...

Ultimo aggiornamento Venerdì 14 Luglio 2017 12:47 Leggi tutto...
 

Linee guida ANAC su soggezione dei servizi legali al codice appalti e alle norme sulla trasparenza

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L'ANAC, con la Delibera n. 556 del 31 maggio 2017, ha provveduto all'aggiornamento della determinazione n. 4 del 2011 recante "Linee guida sulla tracciabilità dei flussi finanziari ai sensi dell'art. 3 della legge 13 agosto 2013, n. 136" alla luce delle novità introdotte con il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 e con il decreto legislativo 19 aprile 2017, n. 56  recante “Disposizioni integrative  e  correttive  al  decreto legislativo  18 aprile 2016, n. 50”.

Si legge a pag. 20 delle linee guida di ANAC sulla tracciabilità dei flussi finanziari:

"3.3 Servizi legali

Il nuovo Codice, come è noto, ripartisce i servizi legali in due categorie.

Da un lato, l’art. 17, comma 1, lett. d), dedicato alle esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi, elenca alcune tipologie di servizi legali (tutte ricondotte nel novero degli appalti di servizi, come si è visto sub 2.9), escludendole dall’ambito oggettivo di applicazione delle disposizioni codicistiche ed assoggettandole unicamente ai princìpi di cui all’art. 4. Si è già argomentato come gli appalti di servizi di cui all’art. 17 (ivi inclusi gli appalti di servizi legali) siano da ritenersi assoggettati alla disciplina sulla tracciabilità, in quanto l’art. 3 della legge n. 136/2010 assoggetta alla relativa disciplina «tutti i movimenti finanziari relativi ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici» e, pertanto, ciò che rileva ai fini della tracciabilità è l’utilizzo di fondi pubblici.

Tuttavia, l’art. 17 non è l’unica disposizione del Codice a far riferimento ai servizi legali. L’art. 140, contenuto nel Capo I dedicato agli “appalti nei settori speciali”, assoggetta ad un particolare regime pubblicitario i servizi di cui all’Allegato IX del Codice (che per il resto devono ritenersi assoggettati alla generalità delle disposizioni codicistiche), nei quali rientrano anche i “servizi legali, nella misura in cui non siano esclusi a norma dell’art. 17, comma 1, lett. d)”.

Il dato letterale di tali disposizioni lascia intendere, quindi, che oltre ai servizi legali esclusi dall’ambito applicativo del Codice - puntualmente elencati all’art. 17, comma 1, lett. d) – vi sono altre tipologie di servizi legali, che devono essere ricondotte nella categoria residuale di cui all’Allegato IX. Atteso che tale categoria residuale di servizi legali è assoggettata alla disciplina codicistica, a maggior ragione deve essere ritenuta soggetta agli obblighi di tracciabilità."

Ultimo aggiornamento Venerdì 07 Luglio 2017 14:30
 

Cassaforense deve restituire i contributi all'avvocato che non chiede ricongiuzione

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Si legge in Corte cost. 439/05: "La riconducibilità della domanda [di ricongiunzione delle posizioni previdenziali] ad una libera scelta dell'assicurato, unitamente al carattere eccezionale della restituzione dei contributi, fa sì che, qualora la facoltà di ricongiunzione venga esercitata, non possa essere affermata l'irragionevolezza della scelta legislativa di far rivivere la regola generale (ossia quella dell'inesistenza di un diritto alla restituzione)."

Se ne può dedurre che l'avvocato che sia stato cancellato dall'albo e dalla Cassa per sopravvenuta incompatibilità a seguito della l. 339/03 e che non chieda ricongiunzione di posizioni previdenziali ha diritto (pena l'incostituzionalità della legge previdenziale forense che si ritenga abbia consentito al Comitato dei delegati di Cassaforense di abrogare la legge speciale previgente e disporre la non restituibilità dei contributi) alla restituzione, da parte di Cassaforense, dei contributi  a quella Cassa versati per meno di 5 anni (i quali, proprio perchè versati per meno di 5 anni, non sono sufficienti a maturare un diritto a pensione contributiva).

LEGGI DI SEGUITO IL "CONSIDERATO IN DIRITTO" ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 04 Luglio 2017 16:00 Leggi tutto...
 

Sentenza Trib Roma 4805 /2017 sui limiti della delegificazione della previdenza forense

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Si legge nella sentenza del Tribunale di Roma n. 4805/2017 sui limiti della delegificazione della previdenza forense attraverso atti regolatori della Cassa:

"Ne risulta quindi una sostanziale delegificazione, affidata dalla legge all'autonomia degli enti previdenziali privatizzati, entro i limiti ad essi imposti, per la disciplina, tra l'altro, del rapporto contributivo -ferma restando l'obbligatorietà della contribuzione e del rapporto previdenziali- concernente le prestazioni a carico degli enti stessi anche in deroga a disposizioni preesistenti.

Il sindacato giurisdizionale sugli atti di delegificazione adottati da tali enti investe dunque il rispetto, da un lato, dei limiti imposti all'autonomia degli enti, dall'altro, dei limiti costituzionali.

Ebbene, sulla base di questi principi, la delegificazione operata dal legislatore nel consentire alla Cassa Forense di stabilire la misura del contributo obbligatorio minimo non sembra in se violare alcun limite costituzionale.

Quel che emerge dalla disamina del quadro normativo è che il legislatore, fin dalla privatizzazione della Cassa Forense, si è preoccupato di assicurare l'equilibrio economico - finanziario e di garantire l'erogazione delle prestazioni, prevedendo la vigilanza del Ministero del lavoro (d.lgs. n. 509/94), sicchè, ferma restando la discrezionalità tecnica affidata alla Cassa nel come attuare i principi stabiliti dalla legge, questi ultimi impongono l'equilibrio economico-finanziario e la sostenibilità nel pagamento delle prestazioni.

Alla stregua di queste considerazioni, posto che nessuna deduzione concreta è stata effettuata per ritenere che la misura del contributo obbligatorio sia stata individuata in modo irragionevole o arbitrario, la censura -formulata genericamente in ricorso- va disattesa."

Ultimo aggiornamento Venerdì 30 Giugno 2017 16:18
 

Per il CSM l'avvocato può fare il magistrato onorario => anche l'impiegato pubblico part time?

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Il CSM, col suo Parere sullo schema di decreto legislativo recante la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché la disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57 (reso con Delibera consiliare del 15 giugno 2017) impone di riconsiderare la questione della proporzionalità o meno dell'incompatibilità sancita dalla legge professionale forense tra impiego pubblico a part time ridotto e professione di avvocato.

Infatti, a pag. 42 del detto parere del CSM si riconosce che "proprio gli avvocati sono la categoria che, presuntivamente, può dar luogo a maggiori problemi di incompatibilità, potendo gli stessi legittimamente esercitare la professione nello stesso distretto ed in circondari limitrofi (cfr. art. 5 dello schema)".

E a pag 44 del medesimo parere il CSM propone in tema di "IMPEGNO PROFESSIONALE ESIGIBILE DALLA MAGISTRATURA ONORARIA:

- sostituire, nei termini che seguono, il secondo periodo del comma 3 dell’art. 1 della legge delega:

“Al fine di assicurare tale compatibilità, a ciascun magistrato onorario non può essere richiesto un complessivo impegno lavorativo superiore a tre giorni di lavoro a settimana, comprensivo della partecipazione a non più di due udienze a settimana”.

ORBENE, SE COSI' LA PENSA IL CSM, E' EVIDENTE CHE DOVREBBE CONSENTIRSI AD UN AVVOCATO DI FARE L'IMPIEGATO PUBBLICO A PART TIME RIDOTTO (CON RISCHIO CERTO MINORE PER L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA DI QUELLO CHE L'ORDINAMENTO ACCETTA DI CORRERE OVE AMMETTE CHE UN AVVOCATO FACCIA ANCHE IL MAGISTRATO ONORARIO).

IN ALTRI TERMINI BISOGNA RICONSIDERARE LA QUESTIONE (POSTA DALLA SENTENZA JAKUBOWSKA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA CHE DECISE LA CAUSA C-225/09) DELLA PROPORZIONALITA' O MENO DELL'INCOMPATIBILITA' CHE LA LEGGE FORENSE PONE TRA AVVOCATURA E IMPIEGO PUBBLICO A PART TIME RIDOTTO).

Per capire come mai sia giunto il momento di implemetare le professionalità interne alle pubbliche amministrazioni reintroducendo la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione di avvocato si legga la sentenza della Cassazione, sez. 5, n. 28684/2018. Tale sentenza chiarisce quando l'Agenzia delle entrate possa farsi assistere da avvocati del libero Foro ma, ai punti da 6 a 14, dà conto delle attuali gravi difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano per poter ricorrere agli avvocati del libero Foro sia nei gradi di merito che nel giudizio in Cassazione: ne risulta l'opportunità politica della reintroduzione della compatibilità suddetta.

... e ricorda, per far meglio valere il tuo diritto al libero lavoro intellettuale, aderisci al gruppo aperto "concorrenzaeavvocatura" su facebook(conta già centinaia di adesioni). Unisciti ai tanti che rivendicano una vera libertà di lavoro intellettuale per gli outsiders e, finalmente, il superamento del corporativismo nelle professioni...

Ultimo aggiornamento Domenica 17 Marzo 2019 16:14
 

Articoli interessanti sulla rivista della Associazione Italiana dei Costituzionalisti

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Intressanti articoli sulla rivista on  line dell'associazione italiana dei costituzionalisti:

http://www.rivistaaic.it/disposizioni-di-natura-incentivante-e-meritevolezza-dell-affidamento-ingenerato-dal-legislatore-osservazioni-a-margine-di-corte-costituzionale-n-108-del-2016.html

http://www.rivistaaic.it/il-giudice-ausiliario-di-corte-d-appello-una-figura-di-giudice-onorario-in-contrasto-con-la-costituzione.html

http://www.rivistaaic.it/eguaglianza-solidariet-e-tecniche-decisorie-nelle-pi-salienti-esperienze-della-giustizia-costituzionale.html

http://www.rivistaaic.it/la-sospensione-di-diritto-ex-legge-severino-supera-ancora-una-volta-il-vaglio-della-corte-nota-a-margine-della-sent-n-276-2016.html

Ultimo aggiornamento Martedì 27 Giugno 2017 16:48
 

Cass. 13196/17: quando l'incompatibilità non può esser ritenuta in astratto

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Si legge in Cass., sez. lav. 13196/2017, pubblicata il 25/5/2017:

"2. Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 7 L. n. 300/70 con riguardo all'art. 10 del Regolamento organico del Personale, deduce che:

- sebbene l'incompatibilità fosse stata chiaramente contemplata dal Regolamento, non vi era alcuna previsione che portasse a sanzionare come illecito disciplinare tale violazione;

- che comunque lo svolgimento di un'attività lavorativa integrativa da parte di un lavoratore in regime di part-time, quale era il rapporto da lui intrattenuto con ENCAL, non è da considerare comportamento illecito, ma neppure biasimevole, in particolare nei casi in cui il reddito da lavoro dipendente sia insufficiente a garantire un sostentamento dignitoso (il reddito percepito presso ENCAL ammontava ad euro 500,00 mensili);

- ove la norma regolamentare fosse interpretata in modo da non consentire che l'incompatibilità venga valutata in concreto e non in astratto, la stessa si porrebbe in contrasto con l'art. 4 Cost.;

- nel caso di specie, ENCAL non aveva dimostrato in che cosa consistesse l'asserita incompatibilità: il ricorrente non era stato accusato di sviamento di clientela, né di attività concorrenziale, né di assenze dal posto di lavoro finalizzate allo svolgimento di altra attività' lavorativa.

...

5. Il secondo motivo è fondato. L'art. 10 del Regolamento organico del personale ENCAL così dispone: "Con la qualità di dipendente dell'ENCAL è incompatibile qualunque altro impiego sia pubblico che privato. E' pure incompatibile ogni altra occupazione o attività che non sia ritenuta conciliabile con l'osservanza dei doveri di ufficio e con il decoro dell'Ente".

5.1. La sentenza impugnata ha fondato il proprio convincimento sul fatto rappresentato dall'esercizio (in sé) di un'altra attività lavorativa, prestata dal Popolo, dipendente dal Patronato ENCAL in regime di part-time, al di fuori dell'orario di lavoro, osservando che il divieto contemplato dalla prima parte della suddetta disposizione ha carattere assoluto e non presenta spazi interpretativi di sorta che giustifichino l'inottemperanza allo stesso, a meno di munirsi di apposita autorizzazione.

5.2. Il motivo del ricorso per cassazione investe specificamente il passaggio argomentativo che ha ritenuto il carattere assoluto del divieto, a prescindere da qualsiasi verifica in concreto della incompatibilità. Invero, siffatta lettura della disposizione regolamentare non può essere accolta, se riferita ad un prestatore di lavoro in regime di part-time, non potendo il datore di lavoro disporre della facoltà del proprio dipendente di reperire un'occupazione diversa in orario

compatibile con la prestazione di lavoro parziale; in tali casi, l'incompatibilità essere valutata dall'Ente in concreto.

5.3. Difatti, pure in presenza di due distinte proposizioni contenute nella previsione, la prima delle quali contempla testualmente una incompatibilità assoluta tra la qualità di dipendente ENCAL e lo svolgimento di "qualunque altro impiego sia pubblico che privato", l'unica lettura interpretativa coerente con il dettato costituzionale di cui agli artt. 4 e 35 Cost. è quella che legittima la verifica della incompatibilità in concreto della diversa attività, svolta al di fuori dell'orario di lavoro, con le finalità istituzionali e con i doveri connessi alla prestazione, ai sensi degli artt. 2104 e 2105 c.c., mentre sarebbe nulla una previsione regolamentare che riconoscesse al datore di lavoro un potere incondizionato di incidere unilateralmente sul diritto del lavoratore in regime di part-time di svolgere un'altra attività lavorativa.

5.4. L'unica interpretazione che rende legittima la previsione regolamentare è quella che esige, anche per l'esercizio di un'attività lavorativa al di fuori dell'orario di lavoro, al pari delle altre "occupazioni o attività" di cui alla seconda proposizione della stessa norma, una verifica di incompatibilità in concreto tra l'esercizio della diversa attività e l'osservanza dei doveri d'ufficio o la conciliabilità con il decoro dell'Ente.

5.5. Inoltre, ammettere che il datore di lavoro abbia una facoltà incondizionata di negare l'autorizzazione o di sanzionare in sede disciplinare il fatto in sé dell'esercizio di un'altra attività lavorativa al di fuori dell'orario di lavoro sarebbe in contrasto con il principio del controllo giudiziale di tutti i poteri che il contratto di lavoro attribuisce al datore di lavoro, e proprio con riferimento ad aspetti incidenti sul diritto al lavoro. L'incompatibilità deve essere verificata caso per caso, proprio nei termini pretesi dall'odierno ricorrente, restando tale valutazione suscettibile di controllo, anche giudiziale.

5.6. Nel secondo motivo di ricorso si è pure evidenziato che nella specie era mancato l'accertamento giudiziale (e finanche l'allegazione di parte datoriale) circa i fatti che sarebbero stati ostativi agli interessi dell'Ente o incidenti sul corretto svolgimento della prestazione lavorativa e sull'affidabilità del dipendente. Il ricorrente ha sottolineato che non era stato accusato di sviamento di clientela, né di attività concorrenziale, né di assenze dal posto di lavoro finalizzate allo svolgimento di altra attività lavorativa.

5.7. Dovendosi ritenere che l'erronea interpretazione dell'art. 10 del Regolamento  del personale dell'Ente abbia inciso sulla specificazione di uno dei parametri della giusta causa (identificato appunto nella inosservanza del divieto assoluto di svolgere un'altra attività lavorativa), nonché sul giudizio conclusivo espresso dalla Corte di appello quanto alla rilevanza disciplinare del complesso dei fatti ascritti, valutati espressamente nella loro unitarietà, l'accoglimento del secondo motivo comporta la cassazione dell'intero giudizio di legittimità del licenziamento disciplinare, rendendo necessario il riesame del merito e la rinnovazione dell'operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta della giusta causa, alla luce dei principi sopra enunciati."

Ultimo aggiornamento Sabato 27 Maggio 2017 21:44
 

Come si propone una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea

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Si legge ai punti da 20 a 24 (e note da 18 a 20) delle conclusioni dell'Avvocato generale della Corte di giustizia UE, HENRIK SAUGMANDSGAARD ØE, presentate il 18 maggio 2017 nella causa C-64/16:

"20.      È vero, come sottolineato dalla Commissione, che è essenziale che il giudice del rinvio formuli la propria domanda in modo chiaro e preciso, dal momento che essa costituisce l’unico atto che serve da fondamento al procedimento dinanzi alla Corte, tanto per quest’ultima quanto per i partecipanti a tale procedimento (17). I requisiti concernenti il contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale figurano in modo esplicito all’articolo 94 del regolamento di procedura della Corte, che il giudice del rinvio, nel quadro della cooperazione prevista all’articolo 267 TFUE, deve conoscere e osservare scrupolosamente. In particolare, è indispensabile che i giudici nazionali illustrino, nella decisione di rinvio stessa, il contesto di diritto in cui si inserisce la controversia principale, e che spieghino non solo le ragioni per cui hanno selezionato le disposizioni del diritto dell’Unione delle quali viene chiesta l’interpretazione, bensì anche quale sia il collegamento che essi stabiliscono tra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile a detta controversia (18).

21.      Orbene, nella presente causa, la motivazione della decisione di rinvio è particolarmente breve, segnatamente sotto due aspetti principali, cosicché è consentito interrogarsi sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale figurante nella medesima.

22.      In primo luogo, per quanto riguarda il collegamento fra le misure nazionali controverse e le disposizioni delle quali viene chiesta l’interpretazione ai sensi della questione pregiudiziale – ossia l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE e l’articolo 47 della Carta –, il giudice del rinvio non è molto esplicito, in quanto si limita ad affermare che, a suo avviso, da tali disposizioni discenderebbe un principio generale di indipendenza dei giudici al quale dette misure potrebbero avere arrecato pregiudizio (19), senza fornire indicazioni precise a tal riguardo.

23.      In secondo luogo, la questione pregiudiziale riguarda la «giurisprudenza della Corte di giustizia», dalla quale risulterebbe parimenti tale principio dell’indipendenza dei giudici, ma i motivi della decisione di rinvio non menzionano alcuna decisione in tal senso di tale Corte. Il giudice del rinvio si limita a menzionare l’esistenza di «numerose sentenze» emesse dalla Corte in relazione alla nozione di «giurisdizione» ai sensi dell’articolo 267 TFUE, le quali prenderebbero in considerazione l’indipendenza dell’organismo che ha formato una domanda di pronuncia pregiudiziale, senza tuttavia citare una qualsiasi delle sentenze che, a suo avviso, sarebbero rilevanti. In assenza di indicazioni adeguate, ritengo che non occorra pronunciarsi su tale aspetto della questione sottoposta alla Corte.

24.      Nonostante le lacune della decisione di rinvio rilevate supra, mi sembra che, alla luce di tutti gli elementi forniti da tale decisione e versati agli atti, la Corte sia cionondimeno sufficientemente informata per essere in grado di pronunciarsi sull’eventuale interpretazione dell’articolo 19 TUE e dell’articolo 47 della Carta e, pertanto, di rispondere in maniera utile alla questione sollevata (20).

 

- NOTA 18      Tali regole sono state richiamate a più riprese dalla Corte nella sua giurisprudenza (v., segnatamente, i passaggi delle decisioni menzionate alla nota 16 delle presenti conclusioni, oltre alla giurisprudenza ivi citata), nonché nelle sue raccomandazioni ai giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, aggiornate nel 2016 (GU 2016, C 439, pag. da 1 a 8, specialmente punti da 14 a 18 e allegato che ricapitola «[g]li elementi essenziali di una domanda di pronuncia pregiudiziale»). V., parimenti, Gaudissart, M.-A., «Les recommandations de la Cour de justice aux juridictions nationales, relatives à l’introduction de procédures préjudicielles», Journal de droit européen, 2017 n. 2, pag. 42 e seg.

- NOTA 19      Sulla motivazione della decisione di rinvio, v. paragrafi 11 e segg. delle presenti conclusioni.

- NOTA 20      V., per analogia, sentenze del 12 febbraio 2015, Surgicare (C‑662/13, EU:C:2015:89, punti da 16 a 23), nonché dell’11 giugno 2015, Lisboagás GDL (C‑256/14, EU:C:2015:387, punti da 24 a 27)."

Ultimo aggiornamento Martedì 23 Maggio 2017 12:14
 

Cass SSUU 11799/2017 sull'ambito dell'appello incidentale e della riproposizione di eccezione

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Cass., SS.UU., n. 11799/2017, depositata il 12/5/2017, enuncia, nell'interesse della legge, il seguente principio di diritto: «Qualora un'eccezione di merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado o attraverso un'enunciazione in modo espresso, o attraverso un'enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d'appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all'esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell'appello incidentale, che è regolato dall'art. 342 cod. proc. civ., non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all'art. 346 cod. proc. civ. Qualora l'eccezione sia a regime di rilevazione affidato anche al giudice, la mancanza dell'appello incidentale preclude, per il giudicato interno formatasi ex art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., anche il potere del giudice d'appello di rilevazione d'ufficio, di cui al secondo comma dell'art. 345 cod. proc. civ. Viceversa, l'art. 346 cod. proc. civ., con l'espressione "eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado", nell'ammettere la mera riproposizione dell'eccezione di merito da parte del convenuto rimasto vittorioso con riguardo all'esito finale della lite, intende riferirsi all'ipotesi in cui l'eccezione non sia stata dal primo giudice ritenuta infondata nella motivazione né attraverso un'enunciazione in modo espresso, né attraverso un'enunciazione indiretta, ma chiara ed inequivoca. Quando la mera riproposizione (che dev'essere espressa) è possibile, la sua mancanza rende irrilevante in appello l'eccezione, se il potere di rilevazione riguardo ad essa è riservato alla parte, mentre, se il potere di rilevazione compete anche al giudice, non impedisce -ferma la preclusione del potere del convenuto - che il giudice d'appello eserciti detto potere a norma del secondo comma dell'art. 345 cod. proc. civ.».

Ultimo aggiornamento Lunedì 22 Maggio 2017 15:00
 

Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche

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La legge 7-8-2015 n. 124, "Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche", all'art. 14 "Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche" (richiamato dall'art. 18, comma 2, della legge sul lavoro agile approvata definitivamente dal Senato il 10/5/2017), prevede:

"1.  Le amministrazioni pubbliche, nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, adottano misure organizzative volte a fissare obiettivi annuali per l'attuazione del telelavoro e per la sperimentazione, anche al fine di tutelare le cure parentali, di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa che permettano, entro tre anni, ad almeno il 10 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano, di avvalersi di tali modalità, garantendo che i dipendenti che se ne avvalgono non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera. L'adozione delle misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi di cui al presente comma costituiscono oggetto di valutazione nell'ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale all'interno delle amministrazioni pubbliche. Le amministrazioni pubbliche adeguano altresì i propri sistemi di monitoraggio e controllo interno, individuando specifici indicatori per la verifica dell'impatto sull'efficacia e sull'efficienza dell'azione amministrativa, nonché sulla qualità dei servizi erogati, delle misure organizzative adottate in tema di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti, anche coinvolgendo i cittadini, sia individualmente, sia nelle loro forme associative.

2.  Le amministrazioni pubbliche, nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, procedono, al fine di conciliare i tempi di vita e di lavoro dei dipendenti, a stipulare convenzioni con asili nido e scuole dell'infanzia e a organizzare, anche attraverso accordi con altre amministrazioni pubbliche, servizi di supporto alla genitorialità, aperti durante i periodi di chiusura scolastica.

3.  Con direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti indirizzi per l'attuazione dei commi 1 e 2 del presente articolo e linee guida contenenti regole inerenti l'organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti.

4.  Gli organi costituzionali, nell'ambito della loro autonomia, possono definire modalità e criteri per l'adeguamento dei rispettivi ordinamenti ai princìpi di cui ai commi 1, 2 e 3.

5.  All'articolo 596 del codice dell'ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, sono apportate le seguenti modificazioni:

a)  dopo il comma 1 è inserito il seguente:

«1-bis. Il fondo di cui al comma 1 è finanziato per l'importo di 2 milioni di euro per l'anno 2015 e di 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016 e 2017. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione, per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017, della quota nazionale del Fondo per lo sviluppo e la coesione, programmazione 2014-2020, di cui all'articolo 1, comma 6, della legge 27 dicembre 2013, n. 147. A decorrere dall'anno 2018, la dotazione del fondo di cui al comma 1 è determinata annualmente ai sensi dell'articolo 11, comma 3, lettera d), della legge 31 dicembre 2009, n. 196»;

b)  al comma 3, le parole: «anche da minori che non siano figli di dipendenti dell'Amministrazione della difesa» sono sostituite dalle seguenti: «oltre che da minori figli di dipendenti dell'Amministrazione della difesa, anche da minori figli di dipendenti delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, nonché da minori figli di dipendenti delle amministrazioni locali e da minori che non trovano collocazione nelle strutture pubbliche comunali,».

6.  Dopo il comma 1-bis dell'articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, è inserito il seguente:

«1-ter. La dipendente vittima di violenza di genere inserita in specifici percorsi di protezione, debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza, può presentare domanda di trasferimento ad altra amministrazione pubblica ubicata in un comune diverso da quello di residenza, previa comunicazione all'amministrazione di appartenenza. Entro quindici giorni dalla suddetta comunicazione l'amministrazione di appartenenza dispone il trasferimento presso l'amministrazione indicata dalla dipendente, ove vi siano posti vacanti corrispondenti alla sua qualifica professionale».

7.  All'articolo 42-bis, comma 1, secondo periodo, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e limitato a casi o esigenze eccezionali»."

Ultimo aggiornamento Martedì 16 Maggio 2017 11:40
 

Il ddl sul lavoro agile approvato definitivamente il 10 maggio 2017

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Il ddl "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato", approvato definitivamente dal Senato il 10/5/2017, disciplina, nel suo capo secondo, il lavoro agile.

LEGGI DI SEGUITO IL CAPO SECONDO DEL DDL, CHE DISCIPLINA IL LAVORO AGILE ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 16 Maggio 2017 09:58 Leggi tutto...
 

Saranno abilitate nuove prestazioni sociali delle casse professionali (con apposita contribuzione)

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Il ddl "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato", approvato definitivamente dal Senato il 10/5/2017, prevede all'art. 6, "Deleghe al Governo in materia di sicurezza e protezione sociale dei professionisti iscritti a ordini o collegi e di ampliamento delle prestazioni di maternità e di malattia riconosciute ai lavoratori autonomi iscritti alla Gestione separata".

Al comma 1 dell'art. 6 si legge: "Al fine di rafforzare le prestazioni di sicurezza e di protezione sociale dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi, il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi nel rispetto del seguente principio e criterio direttivo: abilitazione degli enti di previdenza di diritto privato, anche in forma associata, ove autorizzati dagli organi di vigilanza, ad attivare, oltre a prestazioni complementari di tipo previdenziale e socio-sanitario, anche altre prestazioni sociali, finanziate da apposita contribuzione, con particolare riferimento agli iscritti che abbiano subìto una significativa riduzione del reddito professionale per ragioni non dipendenti dalla propria volontà o che siano stati colpiti da gravi patologie."

 

Ultimo aggiornamento Martedì 16 Maggio 2017 09:32
 

CdS 2098/2017 sugli oneri di sicurezza negli appalti pubblici di servizi di natura intellettuale

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Il Consiglio di Stato, con sentenza 2098/2017 ha ribadito che "l'indicazione di oneri interni per la sicurezza pari a zero in un caso di appalto di servizio di ordine intellettuale ... non comporta di per sé l'esclusione della concorrente per motivi di ordine formale, ed in particolare per violazione dell’art. 87, comma 4 del d.lgs. n. 163/2006 e del bando di gara conforme alla norma, dovendosi piuttosto valutare in concreto se tale dichiarazione sia congrua".

Analogamente dovrà ritenersi sulla scorta dell'art. 50 del nuovo codice degli appalti.

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA 2098/2017 DEL CONSIGLIO DI STATO ...

 

Ultimo aggiornamento Mercoledì 10 Maggio 2017 11:08 Leggi tutto...
 

Cassazione 11161/2017: una interpretazione "predatoria" del principio di solidarietà categoriale?

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La Cassazione, con sentenza 11161/2017, depositata l'8/5/2017 ha ribadito l'orientamento secondo il quale, per tutte le categorie professionali l'esclusione dell'obbligo contributivo nei confronti della Cassa professionale ricorre solo nel caso in cui non sia, in concreto, ravvisabile un intreccio tra tipo di attività svolta e conoscenze tipiche di professionista. Un tale orientamento fu suggerito dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 402 del 1991, resa a proposito del contributo integrativo dovuto dagli avvocati e procuratori iscritti alla Cassa di previdenza ai sensi della L. n. 576 dei 1980, art. 11, comma 1. In quella sentenza si è esplicitamente affermato che il prelievo contributivo in parola è collegato all'esercizio professionale e che per tale deve intendersi anche la prestazione di attività riconducibili, per loro intrinseca connessione ai contenuti dell'attività propria della libera professione; in sostanza le prestazioni contigue, per ragioni di affinità, a quelle libero professionali in senso stretto (rimanendone escluse solamente quelle che con queste non hanno nulla in comune).

SI LEGGE NELLA SENTENZA 11161/2017 DELLA CASSAZIONE ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 09 Maggio 2017 14:58 Leggi tutto...
 

Parere del CNF n. 90/2016: ampi spazi alla sospensione volontaria dall'albo forense

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Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Siracusa ha formulato al Consiglio Nazionale Forense il seguente quesito (n. 224): “L’avvocato che ha chiesto ed ottenuto la sospensione volontaria dall’esercizio della professione ex art. 20, comma 2, L. 247/2012 è assoggettato/assoggettabile alle norme prescrittive dei requisiti di continuità professionale di cui all’art. 2, c. II (lett. a, b, c, d, e, f) D.M Giustizia del 25/02/2016 n. 47, in vigore dal 22/04/2016, con particolare riferimento alla lettera c) (casi trattati in un anno) ed alla lettera f) (sussistenza polizza assicurativa) di tale articolo?”.

QUESTO IL PARERE RESO, IN RISPOSTA, DAL CNF IN DATA 21 SETTEMBRE 2016 (rel. Merli - parere n. 90/2016):

"Il parere va complessivamente reso nei termini seguenti.

Come già osservato incidentalmente con Parere n. 2/2014, l’art. 21, co. 4, della Legge n. 247/2012 contempla la possibile esistenza di giustificati motivi che, in caso di accertata mancanza di effettività, continuatività, abitualità e prevalenza dell’esercizio professionale, consentono al Consiglio dell’Ordine di non procedere alla cancellazione dell’iscritto dall’Albo. L’ipotesi di sospensione a richiesta dall’esercizio professionale da parte dell’iscritto costituisce pertanto un giustificato motivo per non procedere alla cancellazione, considerato che, ragionevolmente, non può svolgere attività professionale colui che ha ritenuto di sospendere l’attività medesima.

Posto in linea di principio quanto sopra, va però esaminata la derogabilità, in dettaglio, dei requisiti contemplati nel decreto ministeriale n. 47/2016.

In ordine ai punti a) e b) dell’art. 2, co. II, deve ritenersi che il sopravvenire di un periodo di sospensione volontaria dell’attività consenta all’iscritto non esercente la professione di decidere discrezionalmente se mantenere la titolarità di una posizione IVA, nonché la disponibilità dei locali precedentemente destinati all’esercizio dell’attività. La condizione sub c) è, invece, formalmente impossibile, sicchè anche di questa il Consiglio territoriale non dovrà tener conto.

In ordine, infine, alle condizioni recate dai punti sub d), e), ed f), si osserva quanto segue.

Poiché l’avvocato volontariamente sospesosi dall’esercizio della professione continua ad essere iscritto all’Albo, permane nei suoi confronti l’obbligo di disporre di un indirizzo di P.E.C., debitamente comunicato all’Ordine di appartenenza, in ottemperanza all’art. 16, co. 7, del D.L.N. 185/2008. Il dovere prescritto al punto d) dovrà, quindi, essere rispettato.

Per quanto concerne, invece, la condizione sub e), va preliminarmente rilevato che l’art. 11 legge n. 247/2012 esenta dall’obbligo formativo solo gli avvocati iscritti che vengono sospesi in ossequio alla previsione recata dall’art. 20, co. 1 (perché eletti ad incarichi politico-istituzionali, ovvero alla Corte Costituzionale od al Consiglio Superiore della Magistratura). La sospensione volontaria dall’attività professionale, dunque, non esonera, in linea di principio, dall’obbligo di formazione. La circostanza va però valutata anche con attenzione alle previsioni recate dal Regolamento C.N.F. n. 6/2014 (Regolamento per la formazione continua). Infatti, dopo aver ribadito il principio anzidetto all’art. 6 “L’obbligo di formazione sussiste per il solo fatto dell’iscrizione all’Albo”, il Regolamento succitato detta all’art. 15, co. 2, diverse ipotesi di esonero dall’obbligo, fra le quali, alla lett. c), è annoverata la seguente: “interruzione per un periodo non inferiore a sei mesi dell’attività professionale o trasferimento di questa all’estero.”. Per quanto sopra, l’obbligo di formazione potrà non essere rispettato qualora la sospensione a richiesta abbia una durata pari o superiore a mesi sei.

La commissione, infine, ritiene che anche il rispetto della condizione sub f) non sia derogabile. L’art. 12 Legge n. 247/2012 sancisce infatti in capo all’avvocato il dovere di stipulare una polizza assicurativa a garanzia dei rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale. Si tratta, in tutta evidenza, di una prescrizione posta a tutela di due posizioni: da un lato, quella dell’avvocato, la cui attività potrebbe, anche a distanza di tempo, essere causa di danni verso terzi con conseguente obbligo di risarcimento; dall’altro, quella del cliente, che tale danno potrebbe subire. La copertura assicurativa, pertanto, deve permanere anche in capo all’avvocato sospeso a richiesta dall’attività professionale, sia perchè la norma anzidetta non contempla eccezioni, sia in quanto il danno verso terzi potrebbe anche emergere, seppur risalente nell’origine ad epoca anteriore, durante il periodo di sospensione. In tal caso, infatti, qualora la copertura assicurativa non fosse stata rinnovata, il cliente non avrebbe più a disposizione la garanzia risarcitoria del danno accertato, la cui sussistenza è prescritta dalla legge.

Da ultimo, la Commissione osserva che la derogabilità, anche parziale, alle condizioni dettate dall’art. 2, co. E, D.M. n. 47/2016, trova giustificazione e ragione nel successivo art. 3, secondo il quale “I requisiti previsti dal comma 2 devono ricorrere congiuntamente, ferme restando le esenzioni personali previste per legge.”

Ultimo aggiornamento Domenica 30 Aprile 2017 07:32
 

Cass. Lav. 10437/2017

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La Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 10437/2017 (Presidente: Berrino - Relatore: Doronzo), pubblicata il 27/04/2017, ha deciso una interessante causa in tema di opposizione contro cartella di pagamento notificata nell'interesse della Cassa Nazionale Previdenza e Assistenza forense, con la quale era stato chiesto ad un avvocato il pagamento dei contributi previdenziali conseguenti all'esercizio dell'attività professionale relativi al periodo precedente alla sua cancellazione dall'albo forense. L'interesse della decisione sta soprattutto nel passaggio motivazionale in cui la Suprema Corte conferma la valutazione della Corte territoriale che "non ha escluso l'ammissibilità in astratto di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa tra le parti ma ha ritenuto che quegli specifici compensi che la Cassa forense ha ritenuto di assoggettare a contribuzione fossero stati erogati non già in forza di un rapporto di tale natura bensì in forza di una prestazione libero professionale".

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA 10437/2017 ...

Ultimo aggiornamento Venerdì 28 Aprile 2017 14:21 Leggi tutto...
 

Cass. SSUU 9861/2017: ovvero la superspecialità della professione forense

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Alle specialità tradizionali occorre fare attenzione. Talune sono un pò tossiche persino per organismi sani e forti e in soggetti defedati possono far molto male.

Per analogo ragionamento l'avvocatura italiana (proletarizzata e non) dovrebbe rifiutare il piatto caldo della sua tradizionale specialità che la Cassazione continua a servire al tavolo delle professioni.

Si legge nella sentenza n. 9861, depositata il 19/4/2017:

"Il d.l. n. 223 del 2006 (cd. decreto Bersani) ha previsto, dalla data della propria entrata in vigore, l'abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che prevedono il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni. Il C.N.F. ha ritenuto che il decreto Bersani non abbia abrogato la previsione del codice deontologico (allora vigente) secondo la quale l'avvocato non può rivelare al pubblico il nome dei propri clienti, ancorché questi vi consentano, previsione peraltro rimasta immutata anche nel codice deontologico successivo al citato decreto Bersani.

Tanto premesso occorre innanzitutto considerare che l'esclusione del divieto di rendere pubblici i nominativi dei propri clienti non è espressamente prevista dal decreto citato e pertanto essa può ritenersi rientrare nella richiamata previsione normativa solo in base ad un'ampia interpretazione del concetto di pubblicità informativa circa "le caratteristiche del servizio offerto".

Di tale interpretazione deve tuttavia essere verificata la compatibilità con le peculiari caratteristiche dell'attività libero-professionale considerata, essendo in proposito da evidenziare che l'attività forense risulta disciplinata da una complessa normativa, anche processuale, ed è indubbiamente nell'ambito più generale di tale normativa complessivamente considerata che vanno inserite ed interpretate le disposizioni in materia di pubblicità informativa con riguardo alla professione forense.

Certo l'attività dell'avvocato, in quanto attività libero-professionale, non è sottratta al principio della ammissibilità della pubblicità informativa "circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni", tuttavia l'ambito in concreto di tale principio va considerato e declinato alla luce delle peculiarità della suddetta attività, non essendo l'avvocato solo un libero professionista ma anche il necessario "partecipe" dell'esercizio diffuso della funzione giurisdizionale, se è vero che nessun processo (salvo i processi civili di limitatissimo valore economico) può essere celebrato senza l'intervento di un avvocato.

La forte valenza pubblicistica dell'attività forense spiega perché il rapporto tra il professionista ed il cliente (attuale o potenziale) rimanga in buona parte scarsamente influenzabile dalla volontà e dalle considerazioni personali (o dalle valutazioni economiche) degli stessi protagonisti e come possa pertanto non risultare dirimente -nel senso di escludere il relativo divieto- il consenso prestato dai clienti del medesimo avvocato alla diffusione dei propri nominativi a fini pubblicitari.

Il rapporto tra cliente e avvocato non è infatti soltanto un rapporto privato di carattere libero-professionale e non può perciò essere ricondotto puramente e semplicemente ad una logica di mercato, basti pensare che il legislatore processuale non ritiene "determinanti" le manifestazioni di volontà espresse dalle stesse parti neppure per quanto riguarda l'inizio o la cessazione del rapporto medesimo: nel processo penale è "imposto" all'imputato che non ne sia provvisto un avvocato d'ufficio, il quale, dal canto suo, salvo che non abbia valide ragioni per rifiutare, ha l'obbligo di accettare l'incarico; nel processo civile né la revoca né la rinuncia privano di per sé il difensore della capacità di compiere o ricevere atti, atteso che i poteri attribuiti al procuratore "alle liti" non sono quelli che liberamente determina chi conferisce la procura, ma sono attribuiti dalla legge al professionista che la parte si limita a designare, a differenza di quanto accade in relazione alla procura al compimento di atti di diritto sostanziale, per la quale è previsto che chi ha conferito i relativi poteri può revocarli - e chi li ha ricevuti, dismetterli- con efficacia immediata (v. tra le altre cass. nn. 17649 del 2010 e 11504 del 2016).

E' proprio la stretta connessione tra l'attività libero-professionale dell'avvocato e l'esercizio della giurisdizione che impone dunque maggiore cautela in materia, non potendo tra l'altro ignorarsi che la pubblicità circa i nominativi dei clienti degli avvocati (in uno con la pubblicità informativa circa le specializzazioni professionali e le caratteristiche del servizio offerto dal legale) potrebbe finire di fatto per riguardare non solo i nominativi dei clienti del medesimo ma anche l'attività processuale svolta in loro difesa, quindi, indirettamente, uno o più processi, che potrebbero essere ancora in corso e, tra l'altro, in alcuni casi persino subire indirette interferenze da tale forma di pubblicità (si pensi, per esempio, a processi per partecipazione ad associazioni di tipo mafioso, in cui il cliente Corte di Cassazione - copia non ufficiale potrebbe autorizzare la diffusione del proprio nominativo non tanto per fare pubblicità al proprio legale quanto per lanciare messaggi ad eventuali complici circa la linea difensiva da seguire o il difensore da scegliere).

Né le considerazioni che precedono contrastano con la prevista "pubblicità" del processo e della sentenza, posto che quando si parla di "pubblicità" del dibattimento o della sentenza si intende che né il processo né la sentenza sono segreti ed è prevista quindi la possibilità di venirne a conoscenza (sia pure, talora, con particolari modalità e/o entro precisi limiti), mentre tutt'affatto diverso è ovviamente il significato del termine "pubblicità" quando viene usato per identificare la propaganda diretta ad ottenere dalla collettività la preferenza nei confronti di un prodotto o di un servizio.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Nessuna statuizione va adottata in punto di spese del giudizio di legittimità non essendovi attività difensiva da parte del COA.

Sussistono i presupposti per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 15 del 2002."

NIENTE DA RIDIRE A PROPOSITO DELLA MOTIVAZIONE GIURIDICA, ANCORATA ALLA NORMAZIONE PRIMARIA.

MOLTO DA ECCEPIRE, INVECE, QUANTO ALLA MANCATA PROPOSIZIONE DI UNA QUESTIONE DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE: VA CENSURATA, INFATTI, LA SCELTA LEGISLATIVA DI LASCIARE ANCORA SPAZIO AD UNA SUPERSPECIALITA' DELLA PROFESSIONE FORENSE RISPETTO ALLE ALTRE PROFESSIONI.

LA PARI DIGNITA', IN COSTITUZIONE, DELLE VARIE PROFESSIONI ESERCITABILI A SEGUITO DI ESAME DI STATO DOVREBBE COMPORTARE SIMILI REGOLAZIONI DELLE VARIE PROFESSIONI RIGUARDO AI MODI DI FARSI PUBBLICITA', A MENO DI RAGIONEVOLE NECESSITA' DI DIFFERENZIAZIONI DI DISCIPLINA, CHE NEL CASO MANCANO.

ALTRIMENTI DETTO: A FRONTE DEL PREMINENTE RILIEVO DEL PRINCIPIO DI CONCORRENZA, IL BILANCIAMENTO TRA I VALORI COSTITUZIONALI NON CONSENTE DI POSTULARE UNA VALENZA PUBBLICISTICA DELLA PROFESSIONE FORENSE CAPACE DI FAR APPARIRE RAGIONEVOLE IL DIVIETO DI PARTICOLARI MODALITA' DI PUBBLICITA' CHE IN ALTRE PROFESSIONI ORDINISTICHE SON CONSENTITE.

Ultimo aggiornamento Venerdì 21 Aprile 2017 13:40
 

Corte cost. 7/2017: nel bilanciamento pesa l'effetto macroeconomicamente esiguo della norma

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La Corte costituzionale, con sentenza n. 7 dell'11/1/2017, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, nella parte in cui prevede che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa ivi previste siano versate annualmente dalla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per i dottori commercialisti ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato.

Ebbene, la sentenza offre spunti di riflessione anche riguardo al tema della restituibilità dei contributi inutilmente versati alle Casse professionali (ad esempio nel caso di versamento a Cassaforense per meno di 5 anni).

Infatti, se è vero che (punto 4.3 del "considerato in diritto" della sentenza 7/2017) "per effetto della riforma del 1994 – le posizioni previdenziali degli iscritti sono collettivamente e singolarmente condizionate dalla regola per cui la prestazione deve essere resa solo attraverso la contribuzione capitalizzata del destinatario e non attraverso l’impiego delle contribuzioni versate dagli altri iscritti in attività", è anche vero che (così come "sotto il profilo della ragionevolezza l'art. 3 Cost. risulta violato per l'incongrua scelta di sacrificare l'interesse istituzionale della CNPADC ad un generico e macroeconomicamente esiguo impiego nel bilancio statale" [punto 4.1 del "considerato in diritto" della medesima sentenza 7/2017]) deve riconoscersi che sotto il profilo della ragionevolezza l'art. 3 Cost. risulta violato per l'incongrua scelta di sacrificare l'interesse individuale dell'iscritto alla Cassa all'interesse istituzionale della Cassa stessa ad un generico e macroeconomicamente esiguo impiego nel suo bilancio.

Così come, riguardo alla questione di legittimità costituzionale del versamento alla Stato dei risparmi imposti alla Casse professionali la sentenza 7/2017 ha potuto affermare che "Nella ponderazione delle due finalità non appare ragionevole il sacrificio – a beneficio di un generico interesse dello Stato ad arricchire, in modo peraltro marginale, le proprie dotazioni di entrata – di quella della CNPADC, che è collegata intrinsecamente alla necessaria autosufficienza della gestione pensionistica.", allo stesso modo, riguardo alla questione di legittimità costituzionale che fosse sollevata, per irragionevolezza della legge che consente alle Casse professionali di stabilire che versamenti effettuati solo per un breve periodo, non sufficiente a generare pensione contributiva, non vengano rimborsati a domanda, la Corte costituzionale dovrebbe affermare l'incostituzionalità di tale norma, in base ad analogo ragionamento sulla ponderazione irragionevole degli interessi in conflitto. Si deve infatti porre rimedio a una grave alterazione del vincolo funzionale tra contributi degli iscritti ed erogazione delle prestazioni previdenziali.


Si deve partire dalla riflessione che la sentenza 7/2017 fa al punto 4.1 del "considerato in diritto": "Una valutazione in termini di proporzionalità e di adeguatezza tra i dialettici interessi in gioco può essere realizzata solo all’interno del quadro legislativo della materia «secondo determinazioni discrezionali del legislatore, le quali devono essere basate sul ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nell’attuazione graduale di quei principi, compresi quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per far fronte ai relativi impegni di spesa» (sentenza n. 119 del 1991). Infatti, se il costante orientamento di questa Corte è nel senso che il legislatore conserva piena libertà di scelta tra sistemi previdenziali di tipo mutualistico – caratterizzati dalla corrispondenza fra rischio e contribuzione e da una rigorosa proporzionalità fra contributi e prestazioni previdenziali – e sistemi di tipo solidaristico – caratterizzati, di regola, dall’irrilevanza della proporzionalità tra contributi e prestazioni previdenziali – una volta scelta con chiarezza la prima delle due opzioni, il bilanciamento degli interessi in gioco deve avvenire tenendo conto della soluzione normativa prevista dal d.lgs. n. 509 del 1994."

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA 7/2017 DELLA CORTE COSTITUZIONALE ...

 

Ultimo aggiornamento Venerdì 07 Aprile 2017 11:05 Leggi tutto...
 

Consiglio di Stato1425 28/3/2017 su occupazione usurpativa per sconfinamento

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Il Consiglio di Stato, con sentenza 1425 del 28 marzo 2017,ha chiarito a chi spetti la giurisdizione in una controversia afferente ad una occupazione usurpativa della P.A.

Si legge in sentenza: 17.2. Il Collegio dà per conosciuta la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di espropriazione (sentenze n. 204 del 2004 e n. 196 del 2006) che, distinguendo fra contegni anche mediatamente riconducibili a un pubblico potere e condotte materiali, ha poi trovato approdo normativo nell’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a.

17.3. Vero è che, in concreto, la distinzione fra l’una e l’altra fattispecie può essere di non agevole individuazione, come dimostrano i diversi orientamenti assunti dalla Corte di cassazione e dal Consiglio di Stato su specifici profili della complessa questione, specie a proposito dell’esproprio in carenza di una previa dichiarazione di pubblica utilità (si veda da ultimo, nel senso della giurisdizione dall’a.g.o., Cass. civ., ss. uu., 18 novembre 2016, n. 23462).

17.4. Su un punto, tuttavia, le due Corti concordano senza tentennamenti: e cioè che l’occupazione di aree al di là dei confini segnati dal decreto di esproprio (c.d. sconfinamento) rappresenta non esercizio di pubblico potere, ma attività di puro fatto (c.d. occupazione usurpativa) posta in essere in carenza assoluta di potere, che integra un illecito comune a carattere permanente, lesivo del diritto soggettivo e non diverso da quello che potrebbe venire commesso da un privato che leda diritti dei terzi, onde l’azione risarcitoria del danno che ne è conseguito rientra nella giurisdizione del giudice ordinario (cfr. per la Corte di Cassazione: sez. I, 13 gennaio 2010, n. 397; ss. uu. 16 dicembre 2013, n. 27994; sez. I, 9 giugno 2014, n. 12941; ss. uu., 7 dicembre 2016, n. 25044; per il Consiglio di Stato: sez. IV, 16 gennaio 2006, n. 102; sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2842).

17.5. Questo orientamento è del tutto pertinente alla vicenda di specie, nella quale, peraltro, la stessa parte privata non ha ricollegato neppure mediatamente il danno di cui chiede il risarcimento ad atti amministrativi, e in particolar modo al procedimento ablativo utilizzato per la costruzione dell’opera viaria e concluso con l’accordo di cessione volontaria dei suoli da espropriare, e ha anzi affermato che l’occupazione dell’area è avvenuta “in assenza di qualsivoglia atto espropriativo o comunque inteso a legittimare l’occupazione provvisoria” (pagg. 4 – 5 della memoria difensiva)."

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO 1425/2017 ...

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 06 Aprile 2017 14:32 Leggi tutto...
 

Responsabilità dell'avvocato per mancata proposizione di ricorso in Cassazione

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La Cassazione, con sentenza n. 7410 del 23/3/2017, ha precisato il riparto dell'onere della prova tra avvocato e suo cliente a fronte di una ipotetica omissione colposa di attività di difesa, stante la mancata proposizione di ricorso in Cassazione.

Partendo da una approfondita analisi del contratto di patrocinio e della procura alle liti la sentenza n. 7410/2017 ha affermato il seguente principio di diritto: «qualora il cliente abbia fornito la prova della conclusione del contratto di patrocinio, con il conferimento dell'incarico all'avvocato di proporre azione in giudizio in primo ed in secondo grado, non è necessario il conferimento di ulteriore mandato per agire in sede di legittimità, della cui prova sia gravato il cliente. La sola circostanza che questi non abbia rilasciato la procura speciale richiesta allo scopo non esclude la responsabilità del professionista per mancata tempestiva proposizione del ricorso, gravando sull'avvocato l'onere di provare di aver sollecitato il cliente a fornire indicazioni circa la propria intenzione di proporre o meno ricorso per cassazione avverso la sentenza sfavorevole di secondo grado e di averlo informato di questo esito e delle conseguenze dell'omessa impugnazione, nonché l'onere di provare di non aver agito in sede di legittimità per fatto a sé non imputabile (quale il rifiuto di impugnare o di sottoscrivere la procura speciale da parte del cliente) ovvero per la sopravvenuta cessazione del rapporto contrattuale».

LEGGI DI SEGUITO LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA 7410/2017 DELLA CASSAZIONE ...

 

Ultimo aggiornamento Lunedì 03 Aprile 2017 10:25 Leggi tutto...
 

Le Sezioni Unite della Cassazione sulla giurisdizione di responsabilità della Corte dei conti

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Le Sezioni unite civili della Cassazione, con sentenza 6820/2017, hanno respinto il ricorso n. 01392 del 2014, statuendo che compete alla Corte dei Conti vigilare sul dovere degli amministratori e degli organi pubblici di spendere con ragionevolezza.

Leggi di seguito i motivi della sentenza 6820/2017 delle Sezioni Unite civili della Cassazione...

 

Ultimo aggiornamento Mercoledì 29 Marzo 2017 10:17 Leggi tutto...
 

IL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO NELL’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

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Fondamentale ricognizione, da parte di Roberto Cosio, dello stato dell'arte su IL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO NELL’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA. Qui l'articolo.

 

Per il CNF i giuristi d'impresa non possono iscriversi all'albo degli avvocati

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La Commissione consultiva del CNF ha reso il seguente parere in risposta al quesito n. 279 del COA di Bologna.

Relatore Consigliere Salazar - Parere del 10 marzo 2017.

Il COA di Bologna pone il seguente quesito:

“Se la previsione dell’art. 2, n. 6 della legge n. 247/2012 consenta a qualsiasi “giurista d’impresa”, anche se non iscritto all’ufficio legale di un ente pubblico o a maggioranza pubblica, di iscriversi all’Albo degli Avvocati, in deroga a quanto previsto dall’art. 18 della legge stessa”.

La risposta al quesito è nei seguenti termini.

Va anzitutto precisato che le fattispecie “giuristi d’impresa” e “avvocati degli enti pubblici” devono essere tenute distinte in quanto assoggettate dalla L. n. 247/2012 a differente disciplina.

I “giuristi d’impresa” sono regolati dall’art. 2, c. 6, della L. P. al solo fine di consentire agli stessi l’esercizio dell’attività professionale di consulenza e assistenza legale stragiudiziale previa instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero stipulazione di contratti di prestazione d’opera continuativa e coordinata nell’esclusivo interesse del datore di lavoro o del soggetto in favore del quale l’opera viene prestata.

Lo status di “giurista d’impresa” non consente l’iscrizione all’albo degli avvocati stante l’incompatibilità di cui all’art. 18, lettera d).

La deroga prevista dall’art. 2, c. 6, è pertanto limitata, come si è detto, all’attività stragiudiziale in favore del datore di lavoro.

Gli avvocati degli enti pubblici, figura assai diversa dai c.d. “giuristi d’impresa”, con i quali non vanno confusi, sono assoggettati alla speciale disciplina dettata dall’art. 23 della L.P., per l’esame della quale – con specifico riferimento al profilo delle incompatibilità - si rinvia al recente parere dell’ufficio studi del 28.2.17, ai pareri di questa Commissione (ad es. nn. 56 e 61 del 2016) e alla giurisprudenza della Corte di Cassazione (ad es., SS. UU., sent. n. 19547/10) e del CNF (ad es., sentt. nn. 134 e 188 del 2015).

Ultimo aggiornamento Giovedì 23 Marzo 2017 11:40
 

Cass SSUU 7155/2017: inammissibile il ricorso in Cassazione se non è "innovativo"

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Le Sezioni Unite civili della Cassazione, con sentenza n. 7155 del 21/3/2017, hanno stabilito che se un ricorso in Cassazione è immotivatamente contrario alla giurisprudenza di legittimità sedimentata, deve essere dichiarato inammissibile e non manifestamente infondato.

LEGGI DI SEGUITO UNO STRALCIO DALLA SENTENZA 7155/2017 DELLE SEZIONI UNITE CIVILI DELLA CASSAZIONE ...

 

Ultimo aggiornamento Mercoledì 22 Marzo 2017 10:45 Leggi tutto...
 

Restituzione di somme pagate in forza di sentenza cassata

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Si legge in Cass. civ., sez. 3, 18/1/2016, n. 667: "... in sede  di  legittimita'  non  e'  mai ammissibile  una  pronuncia di restituzione delle  somme  corrisposte sulla  base della sentenza cassata, neanche nel caso in cui la  Corte di  cassazione, annullando la sentenza impugnata, decida la causa nel merito,  ai  sensi dell'articolo 384 c.p.c., in quanto per  tale  domanda accessoria non opera, in mancanza di espressa previsione, l'eccezione al principio generale secondo cui alla Corte compete solo il giudizio rescindente,  sicche' la stessa, ove il pagamento sia avvenuto  sulla base  della  sentenza  annullata,  va  proposta  al  giudice  che  ha pronunciato quest'ultima, a norma dell'articolo 389 c.p.c. (Cass. Sentenza n. 12218 del 17/07/2012)."

Ultimo aggiornamento Giovedì 23 Marzo 2017 13:11
 

Corte di giustizia su discriminazione diretta e indiretta: diverse le possibilità di giustificazione

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Lo ricorda l’Avv. Generale Juliane Kokott al punto 40 delle sue conclusioni nella causa C-157/15 innanzi alla Corte di giustizia, e in nota 22, scrivendo:

“La distinzione fra discriminazione diretta e indiretta è importante sotto il profilo giuridico soprattutto in quanto le possibilità di giustificazione possono divergere a seconda se la disparità di trattamento su cui la discriminazione si fonda sia collegata alla religione direttamente o indirettamente. In particolare, i possibili obiettivi che possono essere presi in considerazione per giustificare una disparità di trattamento diretta fondata sulla religione hanno una minore estensione di quelli che possono giustificare una disparità di trattamento indiretta (22).

Nota 22: In tal senso già le mie conclusioni nella causa Andersen (C‑499/08, EU:C:2010:248, paragrafo 31) e – in relazione alla direttiva collegata 2000/43 – le mie conclusioni nella causa CHEZ Razpredelenie Bulgaria (C‑83/14, EU:C:2015:170, paragrafo 73); v. inoltre la sentenza Hay (C‑267/12, EU:C:2013:823, punto 45)."

Nelle conclusioni dell'Avv. Generale Kokott nella causa Andersen (C‑499/08), al paragrafo 31 si legge: "La distinzione fra discriminazione diretta e indiretta è importante sotto il profilo giuridico soprattutto in quanto le possibilità di giustificazione divergono a seconda se la disparità di trattamento su cui la discriminazione si fonda sia collegata all’età direttamente o indirettamente (28). Le possibilità di giustificare una discriminazione indiretta fondata sull’età sono formulate in termini molto generali nell’art. 2, n. 2, lett. b), sub i), della direttiva 2000/78 («oggettivamente giustificati da una finalità legittima»), mentre una disparità di trattamento diretta basata sull’età può essere giustificata unicamente da considerazioni di politica sociale ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva (29), da requisiti professionali essenziali ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva (30) oppure da esigenze di ordine pubblico ai sensi dell’art. 2, n. 5, della direttiva. Ne consegue che i possibili obiettivi che possono essere presi in considerazione per giustificare una disparità di trattamento diretta fondata sull’età hanno una minore estensione di quelli che possono giustificare una discriminazione indiretta, per quanto i requisiti inerenti l’esame di proporzionalità siano sostanzialmente gli stessi."

Nelle conclusioni dell'Avv. Generale Kokott nella causa CHEZ Razpredelenie Bulgaria (C‑83/14), al paragrafo 73 si legge: "Ne consegue che i possibili obiettivi che possono essere presi in considerazione per giustificare una disparità di trattamento diretta fondata sulla razza o sull’origine etnica hanno una minore estensione di quelli che possono giustificare una discriminazione indiretta, per quanto i requisiti inerenti l’esame di proporzionalità siano sostanzialmente gli stessi."

Nella sentenza Hay (C‑267/12), al punto 45 si legge: "Peraltro, trattandosi di discriminazione diretta, essa può essere giustificata non tanto da una «finalità legittima» ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva, disposizione che concerne unicamente le discriminazioni indirette, quanto, ed esclusivamente, da uno dei motivi di cui all’articolo 2, paragrafo 5, della stessa, ovvero sicurezza pubblica, tutela dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati nonché tutela della salute, dei diritti e delle libertà altrui."

Ultimo aggiornamento Giovedì 23 Marzo 2017 13:12
 

L'importante sentenza Milkova della Corte di giustizia

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La sentenza della CGUE del 9/3/2017 in causa C-406/15 (Milkova) ha dichiarato:

1)      L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, letto alla luce della convenzione delle Nazioni Unite relativa ai diritti delle persone con disabilità, approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio, del 26 novembre 2009, e in combinato disposto con il principio generale di parità di trattamento, sancito agli articoli 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che esso consente una normativa di uno Stato membro, quale quella di cui al procedimento principale, che conferisce ai lavoratori subordinati con determinate disabilità una tutela speciale preventiva in caso di licenziamento, senza tuttavia conferire tale tutela ai pubblici impiegati con le stesse disabilità, a meno che sia dimostrata una violazione del principio di parità di trattamento, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.Quando si effettua tale verifica, il raffronto tra le situazioni deve essere fondato su un’analisi incentrata sull’insieme delle norme di diritto nazionale pertinenti che disciplinano le posizioni dei lavoratori subordinati con una determinata disabilità, da un lato, e le posizioni dei pubblici impiegati con la medesima disabilità, dall’altro lato, tenuto conto in particolare dell’oggetto della tutela contro il licenziamento di cui al procedimento principale.

2)      Ove l’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2000/78, letto alla luce della convenzione delle Nazioni Unite relativa ai diritti delle persone con disabilità e in combinato disposto con il principio generale di parità di trattamento, ostasse alla normativa di uno Stato membro, come quella di cui al procedimento principale, l’obbligo di rispettare il diritto dell’Unione europea esigerebbe che l’ambito di applicazione delle norme nazionali che tutelano i lavoratori subordinati con una determinata disabilità fosse esteso, affinché di dette norme di tutela beneficino anche i pubblici impiegati con la stessa disabilità.

La sentenza -nonostante riconosca (ai punti 42 e 43) che di certo non si è in presenza di una discriminazione diretta e che dal fascicolo non risulti alcun elemento per affermare con sicurezza che si abbia discriminazione indiretta- fornisce al giudice del rinvio elementi di valutazione perchè quel giudice applichi il diritto dell'Unione (magari disapplicando quello nazionale) nel caso in cui, seguendo il criterio di analisi che la Corte gli suggerisce, giunga a riconoscere realizzata un discriminazione vietata dalla direttiva 2000/78/CE.

Interessante quanto si legge ai punti da 53 a 57 della sentenza, in tema di condizioni giustificative di differenze di trattamento di situazioni non solo identiche ma anche solo comparabili:

"53 A tal proposito si deve anche ricordare che quando la normativa dell’Unione lascia agli Stati membri la scelta tra diverse modalità di attuazione, essi sono tenuti ad esercitare il loro potere discrezionale nel rispetto dei principi generali del diritto dell’Unione, tra i quali figura il principio di parità di trattamento (v., in tal senso, sentenze del 20 giugno 2002, Mulligan e a., C‑313/99, EU:C:2002:386, punto 46, e del 16 luglio 2009, Horvath, C‑428/07, EU:C:2009:458, punto 56, nonché ordinanza del 16 gennaio 2014, Dél-Zempléni Nektár Leader Nonprofit, C‑24/13, EU:C:2014:40, punto 17).

54 Ne consegue che la normativa nazionale applicabile al procedimento principale rientra nell’attuazione del diritto dell’Unione, il che implica che, nel caso di specie, siano applicabili i principi generali del diritto dell’Unione, quale in particolare il principio di parità di trattamento, nonché la Carta (v., in tal senso, sentenza del 10 luglio 2014, Julián Hernández e a., C‑198/13, EU:C:2014:2055, punto 33).

55 Il principio di parità di trattamento costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, ora sancito agli articoli 20 e 21 della Carta, che impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che un simile trattamento non sia obiettivamente giustificato (sentenze del 22 maggio 2014, Glatzel, C‑356/12, EU:C:2014:350, punto 43, e del 21 dicembre 2016, Vervloet e a., C‑76/15, EU:C:2016:975, punto 74 nonché giurisprudenza ivi citata). Una differenza di trattamento è giustificata se si fonda su un criterio obiettivo e ragionevole, vale a dire qualora essa sia rapportata a un legittimo scopo perseguito dalla normativa in questione e tale differenza sia proporzionata allo scopo perseguito dal trattamento di cui trattasi (sentenza del 22 maggio 2014, Glatzel, C‑356/12, EU:C:2014:350, punto 43 e giurisprudenza ivi citata).

56 Per quanto concerne il requisito relativo alla comparabilità delle situazioni ai fini dell’accertamento di una violazione del principio di parità di trattamento, esso deve essere valutato alla luce di tutti gli elementi che caratterizzano dette situazioni (v., in particolare, sentenze del 16 dicembre 2008, Arcelor Atlantique et Lorraine e a., C‑127/07, EU:C:2008:728, punto 25, nonché del 1° ottobre 2015, O, C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 31).

57 Si deve anche precisare, da un lato, che non è necessario che le situazioni siano identiche, ma soltanto che siano comparabili, e, dall’altro lato, che l’esame di tale comparabilità deve essere condotto non in maniera globale e astratta, bensì in modo specifico e concreto tenuto conto dell’oggetto e dello scopo della normativa nazionale che istituisce la distinzione di cui trattasi (v., in tal senso, sentenze del 10 maggio 2011, Römer, C‑147/08, EU:C:2011:286, punto 42; del 12 dicembre 2013, Hay, C‑267/12, EU:C:2013:823, punto 33; del 15 maggio 2014, Szatmári Malom, C‑135/13, EU:C:2014:327, punto 67, e del 1° ottobre 2015, O, C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 32)."

Interessante quanto si legge al punto 63 della sentenza, in tema di obbligo, in capo al giudice nazionale al quale sia stata provata la diversità di trattamento tra gruppi di soggetti, di verificare se la normativa statale sia oggettivamente giustificata alla luce del principio di parità di trattamento:

"63 Infine, se il giudice del rinvio dovesse dichiarare che è provata una differenza di trattamento tra tali gruppi di soggetti, che si trovano in una situazione comparabile, spetterebbe in ultima istanza a detto giudice, che è il solo competente a valutare i fatti di cui alla controversia per il quale è adito e ad interpretare la normativa nazionale applicabile, determinare se, ed in quale misura, la normativa di uno Stato membro, quale quella di cui al procedimento principale, sia oggettivamente giustificata alla luce del principio di parità di trattamento."

Interessante quanto si legge ai punti da 66 a 69 della sentenza, in tema di pari trattamento tra categoria di lavoratori svantaggiata e categoria privilegiata:

"66... in forza di una costante giurisprudenza, quando una discriminazione, contraria al diritto dell’Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata (sentenze del 26 gennaio 1999, Terhoeve, C‑18/95, EU:C:1999:22, punto 57; del 22 giugno 2011, Landtová, C‑399/09, EU:C:2011:415, punto 51, e del 28 gennaio 2015, ÖBB Personenverkehr, C‑417/13, EU:C:2015:38, punto 46). Le persone sfavorite devono dunque essere poste nella stessa situazione in cui si trovano le persone che beneficiano del vantaggio in questione (sentenze dell’11 aprile 2013, Soukupová, C‑401/11, EU:C:2013:223, punto 35).

67 In tale ipotesi, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria (sentenze del 12 dicembre 2002, Rodríguez Caballero, C‑442/00, EU:C:2002:752, punto 43; del 7 settembre 2006, Cordero Alonso, C‑81/05, EU:C:2006:529, punto 46, nonché del 21 giugno 2007, Jonkman e a., da C‑231/06 a C‑233/06, EU:C:2007:373, punto 39). Tale obbligo incombe al giudice nazionale indipendentemente dall’esistenza, nel diritto interno, di disposizioni che gli attribuiscono la competenza al riguardo (sentenza del 7 settembre 2006, Cordero Alonso, C‑81/05, EU:C:2006:529, punto 46).

68 A tale proposito, la Corte ha precisato che tale soluzione è destinata a essere applicata soltanto in presenza di un sistema di riferimento valido (sentenze del 19 giugno 2014, Specht e a., da C‑501/12 a C‑506/12, C‑540/12 e C‑541/12, EU:C:2014:2005, punto 96, e del 28 gennaio 2015, ÖBB Personenverkehr, C‑417/13, EU:C:2015:38, punto 47). Tale circostanza ricorre nel procedimento principale.

69 Nell’ipotesi in cui il giudice del rinvio constatasse che il principio di parità di trattamento non è stato rispettato, ne conseguirebbe che l’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2007/78, letto alla luce della convenzione dell’ONU, osterebbe ad un normativa di uno Stato membro come quella del procedimento principale. Il regime applicabile ai lavoratori subordinati con disabilità, favoriti dal regime anteriore, sarebbe pertanto l’unico sistema di riferimento valido. Pertanto, il ripristino della parità di trattamento, in una situazione come quella del procedimento principale, comporterebbe la concessione, ai pubblici impiegati con disabilità, sfavoriti dal regime in vigore, dei medesimi vantaggi di cui hanno potuto beneficiare i lavoratori subordinati con disabilità, favoriti da tale regime, per quanto riguarda in particolare la tutela preventiva speciale prevista in caso di licenziamento e relativa all’obbligo, per il datore di lavoro, di richiedere un’autorizzazione preventiva dell’ispettorato del lavoro prima di far cessare il rapporto di lavoro (v., per analogia, sentenza del 28 gennaio 2015, ÖBB Personenverkehr, C‑417/13, EU:C:2015:38, punto 48)."

Pure interessante quanto si legge ai punti da 72 a 77 in tema di requisiti di ricevibilità delle questioni pregiudiziali:

"72 Secondo una giurisprudenza costante della Corte, i requisiti concernenti il contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale figurano espressamente nell’articolo 94 del regolamento di procedura della Corte, del quale si ritiene che il giudice del rinvio, nell’ambito della cooperazione instaurata dall’articolo 267 TFUE, abbia conoscenza e che è tenuto a rispettare scrupolosamente (sentenze del 5 luglio 2016, Ognyanov, C‑614/14, EU:C:2016:514, punto 19, nonché del 10 novembre 2016, Private Equity Insurance Group, C‑156/15, EU:C:2016:851, punto 61 e giurisprudenza ivi citata).

73 Pertanto, il giudice del rinvio deve indicare le ragioni precise che l’hanno portato ad interrogarsi sull’interpretazione di determinate disposizioni del diritto dell’Unione e a reputare necessario sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte. Quest’ultima ha già statuito che è indispensabile che il giudice nazionale fornisca un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione di cui chiede l’interpretazione e sul nesso a suo avviso intercorrente tra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia di cui è investito (sentenze del 10 marzo 2016, Safe Interenvíos, C‑235/14, EU:C:2016:154, punto 115, e del 10 novembre 2016, Private Equity Insurance Group, C‑156/15, EU:C:2016:851, punto 62).

74 Occorre sottolineare, a tale riguardo, che le informazioni fornite nelle decisioni di rinvio servono non soltanto a consentire alla Corte di fornire risposte utili alle questioni sollevate dal giudice del rinvio, ma anche a dare ai governi degli Stati membri nonché alle altre parti interessate la possibilità di presentare osservazioni ai sensi dell’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza del 10 novembre 2016, Private Equity Insurance Group, C‑156/15, EU:C:2016:851, punto 63, nonché, in tal senso, sentenza del 5 luglio 2016, Ognyanov, C‑614/14, EU:C:2016:514, punto 20).

75 Nel caso di specie, il giudice del rinvio si limita a sollevare la seconda questione, senza esplicitarla ulteriormente nei motivi della decisione di rinvio. Infatti, esso si limita a fare riferimento, in maniera generale, all’articolo 4 della direttiva 2000/78, così come alle altre disposizioni della stessa, senza tuttavia stabilire un nesso tra tali disposizioni e la normativa nazionale di cui al procedimento principale.

76 A motivo di tali lacune, la decisione di rinvio non consente né ai governi degli altri Stati membri o alle altre parti interessate ai sensi dell’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea di presentare osservazioni utili relativamente a tale seconda questione, né alla Corte di fornire, al giudice del rinvio, una risposta utile a detta questione, al fine di dirimere la controversia principale (v., per analogia, sentenza del 10 novembre 2016, Private Equity Insurance Group, C‑156/15, EU:C:2016:851, punto 66).

77 Alla luce di ciò, la seconda questione è irricevibile."


LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DELLA CGUE DEL 9/3/2017 IN CAUSA c-406/15 (MILKOVA) ....

Ultimo aggiornamento Lunedì 27 Agosto 2018 21:51 Leggi tutto...
 

CGUE su velo islamico e discriminazione (soprattutto indiretta)

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La Corte di giustizia della U.E., nel decidere la causa C-157/15 e C-188/15 ha affrontato il tema delle discriminazioni, dirette e indirette, basate sulla religione o sulle convinzioni personali, in ambito di occupazione e condizioni di lavoro.

Nel decidere la causa C-157/15 ha dichiarato: "L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva.

Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare."

Nel decidere la causa C-188/15 ha dichiarato: "L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dev’essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione."

Si consideri che, nella causa C-157/15 "Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta in via generale di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, costituisce una discriminazione diretta vietata da tale direttiva." Proprio perchè il giudice del rinvio aveva investito la CGUE della sola questione dell'esistenza di una discriminazione diretta che la CGUE ha affermato che spetterà al giudice del rinvio valutare se (non esistendo di certo una discriminazione diretta) esista una discriminazione indiretta. LA CGUE NON HA CERTO VOLUTO AFFERMARE CHE UN GIUDICE NON POSSA CHIEDERE ALLA CORTE SE UNA NORMA INTERNA REALIZZI UNA DISCRIMINAZIONE INDIRETTA. Anzi, espressamente, al punto 36 della sentenza si legge: "... se è vero che spetta in ultima analisi al giudice nazionale, che è l’unico competente a valutare i fatti, stabilire se e in quale misura la norma interna di cui al procedimento principale sia conforme a tali requisiti, la Corte, chiamata a fornire risposte utili al giudice nazionale, è competente a dare indicazioni, ricavate dal fascicolo del procedimento principale nonché dalle osservazioni scritte e orali ad essa sottoposte, che consentano al medesimo giudice di pronunciarsi sulla concreta controversia di cui è stato investito."

LEGGI DI SEGUITO LE SENTENZE NELLE CAUSE C-157/15 E C-188/15 ...

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 23 Marzo 2017 13:14 Leggi tutto...
 

La sentenza Piringer della CGUE: decisiva la proporzionalità della regolazione

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La sentenza Piringer della Corte di giustizia del 9/3/2017 (causa C-342/15), affronta la questione della legittimità di una normativa nazionale che riserva ai notai l'attività di autenticazione delle firme apposte sui documenti necessari per la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari ed esclude, di conseguenza, la possibilità per gli avvocati di esercitare tale attività negli stati membri che applicano una simile riserva.

La sentenza è interessante, per gli avvocati, anche sotto un diverso aspetto: per come argomenta ai punti da 48 a 71, consente di ritenere disapplicabile -per violazione della proporzionalità nel perseguire un obiettivo che pur costituisce una ragione imperativa di interesse generale (vedi soprattutto i punti 62 e 63 della sentenza in relazione all'ampia motivazione della sentenza della Corte costituzionale 189/01) l'art. 18 della legge 247/2012 nella parte in cui stabilisce l'incompatibilità tra iscrizione all'albo forense e impiego pubblico a part time ridotto. NON E' D'OSTACOLO LA SENTENZA JAKUBOWSKA CHE DICHIARO' ESPRESSAMENTE DI NON AVERE ELEMENTI PER GIUDICARE IN ORDINE ALLA QUESTIONE DELLA PROPORZIONALITA' DELLA REGOLAZIONE (CHE ORA VIENE RIBADITA ESSERE LA QUESTIONE FONDAMENTALE).

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA SENTENZA PIRINGER DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DEL 9/3/2017 ...

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 16 Marzo 2017 13:25 Leggi tutto...
 

L'incompatibilità deve portare a sospensione dall'albo, non a cancellazione

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Nei casi di assoluta incompatibilità all'esercizio di una professione è eccessivo cancellare dall'albo ma basta adottare una misura meno limitatrice della posizione degli interessati: impedire temporaneamente l'esercizio della professione (adoperare, cioè, l'istituto della "sospensione", che, ad es., è previsto dalla legge di riforma forense n. 247/2012).

SEMBRA ESSERE QUESTA L'OPINIONE DELL'AUTORITA' GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO.

L'AGCM, PERO', DOVREBBE AFFERMARLA IN MANIERA MENO TIMIDA: DOVREBBE SCRIVERLO A CHIARE LETTERE NELLA SUA PROPOSTA DI LEGGE ANNUALE PER LA CONCORRENZA !

Il capitolo 2 della Relazione semestrale (è del 31/12/2016) dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in tema di conflitto di interessi di cui alla legge 215/2004, è dedicato a chiarire i principali indirizzi interpretativi applicati dall’Autorità nel corso del 2016. Vi si legge:

"Nel presente capitolo si fornisce un sintetico resoconto delle situazioni emerse nel periodo di riferimento e riguardanti i titolari del Governo Renzi in relazione alle diverse fattispecie individuate dalla legge n. 215/2004 e degli orientamenti ermeneutici seguiti in sede di interpretazione e applicazione della legge.

...

b. Carica di governo e attività professionali o impiego pubblico e privato.

In merito a fattispecie riguardanti situazioni di incompatibilità fra incarico governativo e attività professionali [NOTA 6] o rapporti di lavoro di natura pubblica o privata [NOTA 7], l’Autorità, anche nel corso dell’anno 2016, ha adottato il principio stabilito dalle disposizioni di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), e) ed f) della legge n. 215/2004, che stabiliscono l’assoluta incompatibilità fra le attività in questione e il relativo mandato governativo. In tali ipotesi, la soluzione adottata è quindi consistita nell’impedimento temporaneo all’esercizio della professione (art. 2, comma 4, della legge), ovvero nell’applicazione dell’istituto dell’aspettativa per i soggetti interessati.

NOTA 6 : Cfr., per l’anno 2016, il caso SI 870 Chiavaroli. Per quanto concerne analoghi precedenti, cfr. i casi SI 21 Saponara, SI 52 Santelli, SI 82 Berselli, SI 508 Gelmini, SI 510 La Russa, SI 605 Severino, SI 622 Martone, SI 632 Mazzamuto, SI 803 Alfano.

NOTA 7 : 7 Cfr., in merito, il caso SI 869 Amendola (2016). Per fattispecie riguardanti governi precedenti, cfr. i casi SI 318 Bindi, SI 364 Ferrero, SI 730 Fassina."


Ultimo aggiornamento Mercoledì 22 Marzo 2017 11:05
 

Convegno sulla responsabilità da attività giurisdizionale

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Qui il link al convegno

Ultimo aggiornamento Martedì 07 Marzo 2017 13:37
 

BISOGNA ABROGARE MOLTE INCOMPATIBILITA' PRESUNTIVE IRRAGIONEVOLI NELLE PROFESSIONI

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Sul sito della CGIL trovi una interessante proposta di legge per l'abrogazione della incompatibilità per l'avvocato monocommittente e dipendente d'altro avvocato (con relativo appello per la raccolta di firme sulla proposta di legge).

Non basta: bisogna abrogare gran parte delle incompatibilità presuntive IN TUTTE LE PROFESSIONI.

Nei rari casi nei quali è ragionevole ipotizzare una incompatibilità che non leda il principio di libera concorrenza occorre onerare i Consigli dell'Ordine di una verifica puntuale, caso per caso, sulla sussistenza di sufficienti elementi di autonomia di giudizio e di condotta del professionista.

Troppe volte, infatti, le presunzioni assolute di incompatibilità celano una inaccettabile chiusura corporativa di questa o quella professione nei confronti degli outsiders.

Per un esempio si rifletta sulla sentenza della Corte costituzionale 189/2001.

Aggiungo che nei casi di assoluta incompatibilità all'esercizio di una professione è eccessivo che le leggi speciali delle varie professioni impongano di cancellare dall'albo: basterebbe adottare una misura meno limitatrice della posizione degli interessati e cioè impedire loro temporaneamente l'esercizio della professione (adoperare, cioè, l'istituto della "sospensione", che, ad es., è previsto dalla legge di riforma forense n. 247/2012, ma non è sufficientemente "attivato" da quella legge medesima).

SEMBRA ESSERE QUESTA L'OPINIONE DELL'AUTORITA' GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO.

L'AGCM, PERO', DOVREBBE AFFERMARLA IN MANIERA MENO TIMIDA: DOVREBBE SCRIVERLO A CHIARE LETTERE NELLA SUA PROPOSTA DI LEGGE ANNUALE PER LA CONCORRENZA !

Il capitolo 2 della Relazione semestrale (è del 31/12/2016) dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in tema di conflitto di interessi di cui alla legge 215/2004, è dedicato a chiarire i principali indirizzi interpretativi applicati dall’Autorità nel corso del 2016. Vi si legge:

"Nel presente capitolo si fornisce un sintetico resoconto delle situazioni emerse nel periodo di riferimento e riguardanti i titolari del Governo Renzi in relazione alle diverse fattispecie individuate dalla legge n. 215/2004 e degli orientamenti ermeneutici seguiti in sede di interpretazione e applicazione della legge.

...

b. Carica di governo e attività professionali o impiego pubblico e privato.

In merito a fattispecie riguardanti situazioni di incompatibilità fra incarico governativo e attività professionali [NOTA 6] o rapporti di lavoro di natura pubblica o privata [NOTA 7], l’Autorità, anche nel corso dell’anno 2016, ha adottato il principio stabilito dalle disposizioni di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), e) ed f) della legge n. 215/2004, che stabiliscono l’assoluta incompatibilità fra le attività in questione e il relativo mandato governativo. In tali ipotesi, la soluzione adottata è quindi consistita nell’impedimento temporaneo all’esercizio della professione (art. 2, comma 4, della legge), ovvero nell’applicazione dell’istituto dell’aspettativa per i soggetti interessati.

NOTA 6 : Cfr., per l’anno 2016, il caso SI 870 Chiavaroli. Per quanto concerne analoghi precedenti, cfr. i casi SI 21 Saponara, SI 52 Santelli, SI 82 Berselli, SI 508 Gelmini, SI 510 La Russa, SI 605 Severino, SI 622 Martone, SI 632 Mazzamuto, SI 803 Alfano.

NOTA 7 : 7 Cfr., in merito, il caso SI 869 Amendola (2016). Per fattispecie riguardanti governi precedenti, cfr. i casi SI 318 Bindi, SI 364 Ferrero, SI 730 Fassina."

Ultimo aggiornamento Venerdì 10 Marzo 2017 12:38
 

Appalti pubblici. TAR Lazio 2115/17 su CIG e su requisiti di capacità finanziaria-economica-tecnica

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Il TAR Lazio, Sez. II-Ter, in sentenza n. 2115/2017 dell’8 febbraio 2017 ha chiarito da qual momento scatta l’obbligo di indicare il CIG negli atti relativi agli affidamenti d'appalti: tale obbligo non riguarda la fase di scelta del contraente ma il momento di esecuzione del procedimento di gara. Scrive il TAR: "L’obbligo di indicazione del CIG attiene non già alla fase di scelta del contraente bensì alla fase esecutiva del procedimento di gara, ovvero la stipula del contratto il cui contenuto deve recare la clausola relativa agli obblighi di tracciabilità, pena la nullità degli stessi (e non del bando)."

Inoltre, il TAR ha affermato: "La giurisprudenza amministrativa ha sempre riconosciuto alla stazione appaltante un margine apprezzabile di discrezionalità nel richiedere requisiti di capacità economica, finanziaria e tecnica ulteriori e più severi rispetto a quelli normativamente previsti, con il rispetto della proporzionalità e ragionevolezza e nel limite della continenza e non estraneità rispetto all’oggetto della gara (ex plurimis, Consiglio di Stato, V, 8 settembre 2008, n.3083; VI, 23 luglio 2008, n.3655).

Tale esercizio della discrezionalità è stato ritenuto, dunque, compatibile con i principi della massima partecipazione, concorrenza, trasparenza e libera circolazione delle prestazioni e servizi purché i requisiti richiesti siano attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto e la loro applicazione più rigorosa si correli a circostanze debitamente giustificate.

In questi limiti, la pretesa del possesso di requisiti più stringenti relativi alla capacità tecnica, economica e/o finanziaria non costituisce un ostacolo ingiustificato alla partecipazione delle imprese alla gara."

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA N, 2115/2017 DEL TAR LAZIO ...

 

 

Ultimo aggiornamento Venerdì 17 Febbraio 2017 18:39 Leggi tutto...
 

Programmazione di appalti di lavori pubblici, forniture e servizi: parere CdS 351/17

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Il Consiglio di Stato, con parere n. 351/2017, pubblicato il 13/2/2017, si è espresso in senso favorevole, con osservazioni, allo schema di regolamento recante procedure e schemi tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali.

LEGGI DI SEGUITO IL PARERE DEL CONSIGLIO DI STATO N. 351/2017 ...

 

Ultimo aggiornamento Venerdì 17 Febbraio 2017 13:33 Leggi tutto...
 

Quando gli artt. 49, 56 o 63 TFUE possono essere ritenuti in contrasto col diritto interno?

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La CGUE, Grande sezione, in sentenza Ullens de Schooten (C-268/15) del 15/11/2016, ha dichiarato che:

"Il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che il regime della responsabilità extracontrattuale di uno Stato membro per il danno causato dalla violazione di siffatto diritto non è destinato a trovare applicazione in presenza di un danno asseritamente provocato ad un singolo a causa della presunta violazione di una libertà fondamentale, prevista agli articoli 49, 56 o 63 TFUE, da una normativa nazionale applicabile indistintamente ai cittadini nazionali e ai cittadini di altri Stati membri, allorché, in una situazione i cui elementi sono tutti collocati all’interno di uno Stato membro, non sussistono legami fra l’oggetto o le circostanze in discussione nel procedimento principale e i menzionati articoli."

Riporto di seguito l'argomentazione della Corte di giustizia...

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 02 Febbraio 2017 12:01 Leggi tutto...
 

Accordo tra amministrazioni: conseguenze su appalti e concessioni (TAR Veneto 85/2017)

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Gli accordi tra amministrazioni, se violati, portano a illegittimità della proceduta di gara d'appalto pubblico e annullamento degli atti posti in essere dall'amministrazione. Inoltre, vincolano l'agire delle amministrazioni non solo in tema di appalti ma anche in tema di concessioni.

E' questo l'insegnamento che si trae dalla sentenza del TAR Veneto, sez. I, n. 85 del 26/1/2017, della quale, di seguito si riporta uno stralcio.

 

Ultimo aggiornamento Lunedì 30 Gennaio 2017 12:36 Leggi tutto...
 

Contributi inutilmente versati da avvocato a Cassaforense: vanno restituiti !!!

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Non è consentita una interpretazione "predatoria" del principio di solidarietà categoriale, quale sarebbe l'interpretazione che, cancellando il diritto alla restituzione dei contributi versati legittimamente alla Cassaforense per meno di 5 anni, realizzerebbe una "totale negazione di utilità" di tali versamenti contributivi (non di lunga durata ma di considerevole importo).

Di certo una tale interpretazione "predatoria", a vantaggio di ex colleghi più vecchi e più fortunati (i quali, inoltre, continuano ad essere privilegiati non solo per il "destino" previdenziale ma anche per la possibilità di continuare a fruire della, sempre più incrementata, funzione assistenziale della Cassaforense) non è certo avallata dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 7/2017. Tale sentenza espone principi che devono esser ritenuti validi anche in relazione alla previdenza forense. Protegge si l'autonomia delle Casse professionali ma ribadisce in più punti del "considerato in diritto" (punto 4.1, primo capoverso, e punto 4.2, ultimo capoverso) il "vincolo di destinazione tra contributi e prestazioni". Un vincolo, questo, che non può valere solo se si tratti di salvaguardare le finanze delle Casse professionali da incostituzionali appetiti delle finanze statali ma deve vale anche per salvaguardare il montante previdenziale di ogni singolo professionista dalle, altrettanto incostituzionali, liberissime scelte della Cassa professionale su quali siano gli avvocati da meglio tutelare quanto a prestazioni previdenziali.

Il discorso, di certo, andrebbe ampliato e riferito anche alle incostituzionali liberissime scelte delle Casse professionali su quali siano gli importi da stornare dalla previdenza e destinare all'assistenza e su quali siano le fattispecie meritevoli di assistenza. Sul punto si consideri che la richiamata sentenza 7/2017 della Corte costituzionale ricorda -al punto 4,2 del "considerato in diritto"- la "naturale missione" delle Casse professionali di "preservare l'autosufficienza del proprio sistema previdenziale" [e non anche assistenziale] e appena prima afferma la necessità di "preservare da un'eccessiva espansione della spesa corrente una parte delle risorse naturalmente destinate alle prestazioni previdenziali, [la Corte esclude, tacendone, la configurabilità di una naturale destinazione delle risorse derivanti dai versamenti contributivi alle prestazioni assistenziali] salvaguardando il buon andamento dell'ente in conformità agli obiettivi della riforma del 1994".

Si prospettano di seguito alcuni argomenti (tratti da una difesa dell’avv. Maurizio Perelli in causa contro Cassaforense) utili a contrastare la pretesa di Cassaforense di aver potuto  abrogare, in delegificazione (attraverso talune delibere del Comitato dei delegati di Cassa forense risalenti al 2004), il diritto degli avvocati alla restituzione dei contributi versati legittimamente per meno di cinque anni a Cassa forense, come sancito dagli artt. 21, comma 1, e 22, ultimo periodo, della l. 576/80.

Nell'approfondimento riportato di seguito si censurano, tra l'altro, quelle interpretazioni di disposizioni legislative (l'art. 1, comma 488, della legge n. 147/2013 e le norme di legge da quel comma autenticamente interpretate: in primis l'ultimo periodo dell'art. 1, comma 763, della l. 296/2006 e, mediatamente, l’art. 3, comma 12, della l. 335/1995) secondo le quali la Cassa forense sarebbe stata autorizzata dalla legge ad abrogare retroattivamente (tramite delibere del Comitato dei delegati del 2004) il diritto al rimborso dei contributi previdenziali (versati per meno di 5 anni) già riconosciuto agli avvocati da norma speciale di legge. Clicca su “LEGGI TUTTO” ...

Ultimo aggiornamento Lunedì 30 Gennaio 2017 14:23 Leggi tutto...
 

D.Lgs. 19/1/2017 n. 3: per la concorrenza arriva il "private enforcement"

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Nella Gazzetta ufficiale n. 15 del 19-1-2017 è stato pubblicato il decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 3 "Attuazione della direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo  e  del Consiglio, del 26 novembre 2014, relativa  a  determinate  norme  che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale  per  violazioni  delle  disposizioni  del  diritto   della concorrenza degli Stati membri e dell'Unione europea."

Leggi di seguito il decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 3 ...

 

Ultimo aggiornamento Venerdì 20 Gennaio 2017 22:12 Leggi tutto...
 

L'Avv. Generale J. Kokott su direttiva 78/200/CE e discriminazione indiretta

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Mi pare che non sia condivisibile la sentenza della Corte di giustizia del 24/11/2016 in causa C-445/15 e che invece si dovrebbero accogliere le conclusioni dell'Avvocato generale J. Kokott: "Integra una discriminazione indiretta in base all’orientamento sessuale vietata ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, in combinato disposto con il paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78/CE, la previsione, in un regime previdenziale professionale, che condiziona il diritto a una pensione di reversibilità per il partner registrato dello stesso sesso al fatto che l’unione civile registrata sia stata contratta prima del compimento dei 60 anni da parte del lavoratore affiliato al regime previdenziale qualora, allo stesso tempo, per gli interessati fosse giuridicamente impossibile contrarre una siffatta unione registrata o un matrimonio prima del raggiungimento di detto limite di età."

 

SI DOVREBBE RAGIONARE ANALOGAMENTE ANCHE IN TEMA DI DISCRIMINAZIONE INDIRETTA PER ETA' CON RIFERIMENTO A DISCRIMINAZIONI NELLA RETRIBUZIONE (IN TAL CASO, INOLTRE, NEPPURE ESISTE, A IPOTETICA GIUSTIFICAZIONE DELLA DISCRIMINAZIONE, UN NORMA ANALOGA A QUELLA DI CUI AL CONSIDERANDO 22 DELLA DIRETTIVA 2000/78/CE, CHE E' CITATA AL PUNTO 57 DELLA SENTENZA DELLA CGUE (E CHE LASCIA IMPREGIUDICATE LE LEGISLAZIONI NAZIONALI IN MATERIA DI STATO CIVILE E LE PRESTAZIONI CHE NE DERIVANO).


LEGGI DI SEGUITO LE CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE J. KOKOTT ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 10 Gennaio 2017 13:06 Leggi tutto...
 

CdS 2334/2016: obbligo di rinvio pregiudiziale inadempiuto porta responsabilità dello Stato

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Il Consiglio di Stato, sezione IV, ordinanza 1 giugno 2016, n. 2334, ha scritto:

"8.6.1. Si è detto della rilevanza della questione di interpretazione della compatibilità della normativa nazionale con le disposizioni del Trattato FUE, ai fini della definizione del presente giudizio.

Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea si renderebbe, quindi, necessario, da parte di questo Consiglio di Stato quale giudice di ultima istanza, alla luce di quanto affermato dalla consolidata giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia (cfr. ex plurimis Sez. IV, 18 luglio 2013 cit. laddove essa precisa, par. 25, che: “… qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione di interpretazione del predetto Trattato”).

In sintesi circa la portata dell’«obbligo» del giudice nazionale di ultima istanza di sollevare «pregiudiziale comunitaria», la Corte di giustizia ha chiarito che tale obbligo non sussiste se:

a) la questione di interpretazione di norme comunitarie non è pertinente al giudizio (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull’esito della lite);

b) la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla corte o comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso;

c) la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione (c.d. teoria dell’atto chiaro, sul punto è sufficiente il richiamo alla sentenza capostipite della Corte del Lussemburgo 6 ottobre 1982, C-283/81, Ci.).

A stretto rigore, nel caso di specie, non ricorre alcuna di queste deroghe.

8.6.2. Non possono essere trascurati, poi, i seguenti ulteriori risvolti:

a) il mancato rinvio pregiudiziale in termini di responsabilità del giudice nazionale e dello Stato di appartenenza, atteso che, nell’ordinamento italiano, a fondamento di azioni di responsabilità civile nei confronti dei magistrati e dello Stato ai sensi della l. 117 del 1988 (come novellata dalla l. n. 18 del 2015) viene posta, fra l’altro, proprio l’asserita inosservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale (art. 2, co. 3-bis); del resto laddove si configuri un obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, la sua violazione è ritenuta dalla medesima Corte sanzionabile mediante la responsabilità degli Stati membri, che sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’Unione riconducibili ad organi giudiziari, e in particolare quando questi ultimi omettano di ottemperare all’obbligo di rinvio pregiudiziale (a partire da Corte giust. 30 settembre 2003, causa C-224/01, Ko.; successivamente, 13 giugno 2006, causa C-173/03, Tr.i de. Me.; 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione europea c. Repubblica italiana);

b) la necessità di evitare che si configuri il possibile abuso degli strumenti processuali ad opera delle parti con richieste di rinvio pregiudiziale che, pur formalmente assentibili, nella sostanza tendono, come nel caso di specie, a superare una decisione del giudice costituzionale nazionale nonostante sia stata resa all’esito della valutazione di parametri di giudizio sostanzialmente omogenei rispetto a quelli invocati nella richiesta di rinvio pregiudiziale; dunque in violazione del divieto del ne bis in idem processuale e con la conseguente ulteriore lesione del principio di ragionevole durata del processo;

c) la necessità di vagliare, in sede di interpretazione dell’art. 267 Trattato FUE, le più mature acquisizioni elaborate dalla Corte EDU, in applicazione dell’art. 6 CEDU, circa la possibilità di configurare la responsabilità del giudice nazionale di ultima istanza, solo quando ometta di motivare sulle ragioni del diniego di rinvio (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 aprile 2014, Dh. c. Italia)."

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA ORDINANZA DELLA SEZIONE 4 DEL CONSIGLIO DI STATO, 1 GIUGNO 2016, N. 2334 ...

 

Ultimo aggiornamento Mercoledì 04 Gennaio 2017 16:45 Leggi tutto...
 

Ordinanza TAR Lazio 12856/2016: q.l.c. su accesso a albo degli avvocati cassazionisti

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Il TAR Lazio, con ordinanza 12856 depositata il 30 dicembre 2016 ha sollevato questione di legittimitàcostituzionale delle norme che disciplinano l'accesso al c.d. albo dei cassazionisti. Ha rilevato discriminazione "al rovescio" degli avvocati iscritti direttamente in albi italiani rispetto agli avvocati iscritti in albi forensi non italiani e "stabiliti" in Italia.

LEGGI DI SEGUITO L'ORDINANZA 12856/2016 DEL TAR LAZIO ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 03 Gennaio 2017 13:22 Leggi tutto...
 

Cgue C-548/15: giudice del rinvio giudichi discriminazione per età (finalità e mezzi appropriati)

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La Corte di giustizia dell'Unione Europea, con sentenza del 10/11/2016 ha dichiarato:

1)      L’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che un regime impositivo come quello di cui al procedimento principale, che prevede che il trattamento fiscale delle spese di formazione professionale sostenute da una persona sia diverso a seconda dell’età di quest’ultima, rientra nell’ambito di applicazione ratione materiae di tale direttiva, nei limiti in cui mira a favorire l’accesso alla formazione dei giovani.

2)      L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che non osta a un regime impositivo, come quello di cui al procedimento principale, che consente a chi non abbia ancora compiuto i 30 anni di dedurre integralmente, a determinate condizioni, le spese di formazione professionale dai redditi imponibili, mentre tale diritto alla deduzione è limitato per chi abbia già raggiunto tale età, qualora, da un lato, detto regime sia oggettivamente e ragionevolmente giustificato da una finalità legittima relativa alla politica del lavoro e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi per conseguire tale obiettivo siano appropriati e necessari. Spetta al giudice del rinvio verificare se tale ipotesi ricorra nel procedimento principale.

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA SULLA CAUSA C-548/15 ...

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 22 Dicembre 2016 17:49 Leggi tutto...
 

Troppo limitata la possibilità d' impugnare le sentenze del CNF

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Infatti, come insegna la Corte di giustizia dell'Unione europea, il Consiglio Nazionale Forense, oltre ad essere un giudice speciale è anche una associazione di imprese (il che comporta dubbi di scarsa terzietà ai quali dovrebbe potersi rispondere con ampia possibilità di impugnazione delle sentenze).

Riporto dalla newsletter di deontologia del CNF del 7/12/2016:

"I limiti al sindacato di legittimità delle sentenze del CNF

Le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle sezioni unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 56 del r.d.l. n. 1578 del 1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito. Non è quindi consentito alle Sezioni Unite sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale.

Ultimo aggiornamento Sabato 10 Dicembre 2016 09:17
 

Corte di giustizia 8/12/2016: OK a tariffe per avvocati se decise con legge

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La Corte di giustizia dell'Unione europea, nella causa C-532/15 e C-538/15 ha dichiarato:

"1) L’articolo 101 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, dev’essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che assoggetta gli onorari dei procuratori legali a una tariffa che può essere aumentata o diminuita solamente del 12%, e della quale i giudici nazionali si limitano a verificare la rigorosa applicazione, senza essere in grado, in circostanze eccezionali, di derogare ai limiti fissati da tale tariffa.

2) La Corte di giustizia dell’Unione europea è incompetente a rispondere alle questioni seconda e terza nella causa C532/15 nonché alle questioni dalla terza alla quinta nella causa C538/15, poste rispettivamente dall’Audiencia Provincial de Zaragoza (corte provinciale di Saragozza, Spagna) e dallo Juzgado de Primera Instancia de Olot (tribunale di primo grado di Olot, Spagna)."

Interessanti soprattutto i seguenti passaggi della sentenza in ordine alla prima dischiarazione:

28 Da ciò consegue che le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione proposte dal giudice nazionale nell’ambito del contesto di diritto e di fatto che egli individua sotto la propria responsabilità, del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza. Il rigetto, da parte della Corte, di una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto del procedimento principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v. sentenza del 6 settembre 2016, Petruhhin, C‑182/15, EU:C:2016:630, punto 20 e giurisprudenza citata).

33 In via preliminare, contrariamente agli argomenti dell’Eurosaneamientos e a., del Consejo General de Procuradores de España (consiglio generale dei procuratori legali di Spagna) e del governo austriaco, occorre rilevare che gli onorari fissati dal regio decreto n. 1373/2003, estendendosi a tutto il territorio di uno Stato membro, sono in grado di pregiudicare il commercio tra gli Stati membri ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, e dell’articolo 102 TFUE (v., in tal senso, ordinanza del 5 maggio 2008, Hospital Consulting e a., C‑386/07, non pubblicata, EU:C:2008:256, punto18 e giurisprudenza citata).

34 Gli articoli 101 e 102 TFUE, pur riguardando esclusivamente la condotta delle imprese e non le disposizioni legislative o regolamentari emanate dagli Stati membri, nondimeno obbligano, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, che instaura un dovere di collaborazione, gli Stati membri a non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, idonei a pregiudicare l’effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese (v., in tal senso, ordinanza del 5 maggio 2008, Hospital Consulting e a., C‑386/07, non pubblicata, EU:C:2008:256 punto 19 e giurisprudenza citata).

35 Da una giurisprudenza costante risulta che si è in presenza di una violazione dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE e dell’articolo 101 TFUE qualora uno Stato membro imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con l’articolo 101 TFUE, o rafforzi gli effetti di tali accordi, o revochi alla propria normativa il suo carattere pubblico delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni di intervento in materia economica (v. sentenza del 5 dicembre 2006, Cipolla e a., C‑94/04 e C‑202/04, EU:C:2006:758, punto 47 e giurisprudenza citata).

Interessanti soprattutto i punti da 43 a 56 della sentenza in ordine alla seconda dichiarazione della CGUE.

LEGGI DI SEGUITO L'INTERA SENTENZA DELLA CGUE ...

Ultimo aggiornamento Venerdì 09 Dicembre 2016 17:30 Leggi tutto...
 

Cancellazione da albo per incompatibilità: Cassaforense restituisce anche contributi "solidaristici"

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Il Tribunale di Rieti, nella sentenza n. 354/2016, depositata il 29/11/2016 (che -compensando integralmente le spese a causa della novità delle questioni trattate- ha deciso sul ricorso presentato dall'avv. Maurizio Perelli contro la Cassa forense) ha affermato:

"La parte convenuta va condannata alla restituzione di tutti i contributi versati negli anni di iscrizione all'albo che -a causa dell'incompatibilità allo svolgimento della professione di avvocato- devono essere ritenuti inefficaci (2007-2009): invero sebbene la formulazione testuale dell'art. 22 l. 576/1980 secondo cui sono rimborsabili a richiesta i contributi relativi agli anni dichiarati di iscrizione dichiarati inefficaci, non autorizzi a ritenere che per i contributi rimborsabili si debbano intendere anche i contributi di tipo solidaristico, deve tuttavia rimarcarsi come la funzione solidaristica di quella parte dei contributi versati dal professionista mantenga la sua ragion d'essere qualora il professionista continui ad essere iscritto all'albo e cessi laddove -come nella specie- il professionista venga d'ufficio cancellato a causa del l'incompatibilità."

Inoltre, il Tribunale precisa che va affermato anche il diritto del ricorrente al rimborso dei contributi che (in relazione ad uno solo degli anni di accertata incompatibilità all'esercizio della professione forense) erano stati versati in forza di cartella esattoriale opposta dal ricorrente.

La cartella esattoriale, emessa in relazione ai contributi dovuti per quel solo anno di incompleto versamento in costanza di incompatibilità, non è stata annullata perchè alla data di emissione della medesima cartella non sussisteva alcuna dichiarazione della Cassa di inefficacia dell'iscrizione con riferimento all'anno in questione. Cionondimeno, per il Tribunale, il ricorrente ha diritto al tantundem, a titolo di rimborso.

Mi pare giusta la attenzione del Tribunale reatino ai limiti naturali del principio di solidarietà. In fondo, anche  proposito della solidarietà e non solo a proposito dell'amicizia, aveva ragione Schopenhauer.

Ultimo aggiornamento Martedì 28 Febbraio 2017 12:14
 

Un lavoratore subordinato "giurista d'impresa" può essere iscritto all'albo forense.

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all'elenco dei lavori compatibili aggiungere il giurista di impresa

Mi domando: perchè il lavoratore dipendente "giurista di impresa" può essere iscritto all'albo forense mentre il lavoratore dipendente pubblico a parte time ridotto non può?

Dalla newsletter del Consiglio Nazionale Forense dell'1/12/2016:


Il COA di Massa Carrara pone il seguente quesito: “Se sussista l’incompatibilità tra l’iscrizione all’Albo degli Avvocati e l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato avente ad oggetto la consulenza e l’assistenza legale stragiudiziale, posto che l’art. 2 comma 6 della L. 247/2012 stabilisce che ‘…è comunque consentita l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata, aventi ad oggetto la consulenza e l’assistenza legale stragiudiziale, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro o del soggetto in favore del quale l’opera viene prestata’, e, l’art. 18 comma unico lett. d) sancisce che ‘la professione di avvocato è incompatibile: …d) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”.

Posted: 30 Nov 2016 03:00 AM PST

La risposta è nei seguenti termini:
L’art. 2 c. 6, della L. n. 247/2012, recepisce all’interno della disciplina delle professioni di avvocato la figura del “giurista d’impresa”, che pertanto non rientra nel regime delle incompatibilità di cui all’art. 18 della stessa legge.

Consiglio nazionale forense (rel. Salazar), 22 giugno 2016, n. 77

Quesito n. 210, COA di Massa Carrara

Ultimo aggiornamento Venerdì 02 Dicembre 2016 15:21
 

Vicedirigenza: game over ! L'ha deciso la sentenza della Corte costituzionale 214/2016

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La Corte costituzionale, con sentenza n. 214/2016, depositata il 3/10/2016, ha dichiarato costituzionalmente legittima la norma di legge che cancellò la vicedirigenza nel pubblico impiego.

Questo il dispositivo della sentenza 214/2016: "La Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – dal Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe."

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 214/2016 ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 04 Ottobre 2016 16:10 Leggi tutto...
 

Cass. 18714 del 23 settembre 2016: RIBADITI PRINCIPI DI DIRITTO CHE INVECE ANDAVANO SCONFESSATI

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La sentenza della Cassazione, sez. lavoro, n. 18714 depositata il 23 settembre 2016 enuncia i seguenti principi di diritto:

" - Il D.lgs. n. 165 del 2001, art. 45, co 2, non vieta ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, ma solo quelli contrastanti con specifiche previsioni normative, restando escluse dal sindacato del giudice le scelte compiute in sede di contrattazione collettiva;

- la distinzione in termini stipendiali fra il personale appartenente al ruolo a esaurimento e gli altri dipendenti della ex 9A qualifica funzionale, tutti ormai inseriti nell'area contrattuale "C", non determina una violazione di legge da parte della contrattazione collettiva ma costituisce attuazione della norma transitoria contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in virtù della quale il personale delle qualifiche ad esaurimento di cui al DPR 30 giugno 1972, n. 748, art. 60 e 61 (e successive modificazioni e integrazioni) e quello di cui alla l. 9 marzo 1989, n. 88, art. 15, i cui ruoli sono contestualmente soppressi a far data dal 21.2.93, conserva le qualifiche medesime ad personam;

- la sopravvivenza di qualifiche ad personam costituisce una consapevole eccezione legislativa rispetto all'assetto ordinario, eccezione prevista dallo stesso D.Lgs. n. 165 del 2001 che contempla, all'art. 45, il principio della parità di trattamento stipendiale corrispondente alle predette qualifiche, non potendo trarsi dalla disposizione transitoria la regola attraverso la quale interpretare la disposizione a regime;

- la disposizione di cui all'art. 69, comma 3, d.lgs. n. 165/01, trova giustificazione nel diverso percorso professionale del ruolo soppresso ad esaurimento, per cui non si pone in contrasto né con precetti costituzionali (art. 3, 36 e 97 Cost.), né con la direttiva 2000/78/CE, che all'art. 6 contempla il principio generale di non discriminazione in ragione dell'età poiché la finalità che giustifica l'anzidetta previsione della legislazione italiana prescinde del tutto dall'età anagrafica dei lavoratori che hanno conservato ad personam la qualifica del ruolo soppresso."

A MIO PARERE:

LA CASSAZIONE (RIBADENDO LA SUA GIURISPRUDENZA E SCONFESSANDO L'INTERPRETAZIONE DEI LIMITI DEL POTERE DEI CCNL CHE AVEVA DATO LA CORTE D'APPELLO DI ROMA):

1) HA ERRATO NEL NON RICONOSCERE SUSSISTENTE UNA DISCRIMINAZIONE INDIRETTA PER ETA' O, ALMENO, NEL NON CHIEDERE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UN CHIARIMENTO IN  TEMA DI DISCRIMINAZIONE INDIRETTA PER ETA' (chiarimento che sarebbe stato utile, visto che la CGUE -nella sentenza Specht, punti da 87 a 107, e nella sentenza Unland, punti da 67 a 69- ha statuito che l’art. 17 della direttiva 2000/78/CE impone di concedere retroattivamente ai dipendenti pubblici discriminati di una certa categoria un importo corrispondente alla differenza tra la retribuzione da essi effettivamente percepita e la retribuzione concessa alla categoria privilegiata);

2) NON HA ADEGUATAMENTE VALUTATO L'INDICAZIONE DATA DA CORTE COST. 228/1997 CIRCA L'ILLEGITTIMITA' DI UN DETERIORE TRATTAMENTO DELLA NONA QUALIFICA FUNZIONALE (rispetto ai direttori di divisione e agli ispettori generali ad esaurimento) SE PROTRATTO A LUNGO;

3) NON HA CORRETTAMENTE INTERPRETATO LE NORME  DI LEGGE SUCCEDUTESI IN ORDINE ALLE ATTRIBUZIONI DEGLI IMPIEGATI MINISTERIALI DIRETTIVI DELL'EX RUOLO A ESAURIMENTO E DELL'EX NONA QUALIFICA FUNZIONALE.

A chi volesse approfondire le ragioni della critica alla sentenza della Cassazione, sez. lavoro, n. 18714 depositata il 23 settembre 2016, può scrivermi all'indirizzo Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. Su richiesta invierò la sentenza 18714/2016, la mia memoria depositata in vista dell'udienza in Cassazione del 5 maggio 2016; le mie repliche scritte in udienza alle conclusioni del pubblico ministero.

Qui mi limito a poche considerazioni sulla professionalità e sulle attribuzioni riconosciute dalla legge ai funzionari della ex nona qualifica funzionale in confronto con quelle riconosciute ai loro più vecchi colleghi, gli ex direttori di divisione e ispettori generali ad esaurimento. In ordine a tali professionalità e attribuzioni s'erano evidenziate alla Cassazione, nel corso della causa decisa con la sentenza 18714/2016, "Le ragioni della professionalità come fonte della scelta legislativa di programmare l'azione della contrattazione collettiva per il graduale aumento della retribuzione della IX q.f. fino almeno all'equiparazione al 100% con i ruoli "ad esaurimento".

S'era scritto: "Cass. n. 2892/2014 afferma essersi realizzata una "sostanziale equiparazione di fatto delle mansioni" della IX q.f. e dei ruoli "ad esaurimento" ad opera del DPR 266/1987. Bisogna, invece, riconoscere che una chiara "superiorità professionale" dei funzionari della IX q.f. rispetto ai colleghi dei ruoli "ad esaurimanto" spiega la scelta del legislatore che (per mezzo dell'art. 2, comma 4, del d.l. 9/1986; dell'art. 1, comma 3, del d.l. 413/1989; dell’art. 25, comma 4, ultimo periodo, del d.lgs. 29/1993; dell’art. 69, comma 3, ultimo periodo, del d.lgs. 165/2001) programmò e prescrisse alla contrattazine collettiva la realizzazione in tempi certi, almeno di un pari trattamento retributivo delle dette categorie di lavoratori.

L'interpretazione sopra data alla citata normativa speciale corrisponde ad esigenze di valorizzazione del merito e della professionalità, destinate a proiettarsi (come si vedrà al PUNTO 5 della presente memoria, nel prospettare eccezione subordinata di legittimità costituzionale) nell'orbita del buon andamento della pubblica amministrazione, visto che (come rilevò il Tribunale di Roma, in sentenza del 24/9/2008 resa nella causa R.G. 302634/07) i funzionari dell’ex IX q.f. potevano svolgere, sin dal 1987 [nota 1], anche funzioni che denotano ben maggiore professionalità [nota 2] rispetto a Direttori di Divisione ed Ispettori Generali.

Ci si riferisce, in primo luogo, alle funzioni indicate all'art. 20, lettera e) e lettera f) del DPR 266/1987. Si tratta di funzioni che mai vennero riconosciute, nella loro interezza, ai ruoli "ad esaurimento" e che sono ben più pregnanti e segno di professionalità rispetto a quelle di cui all'art. 25, comma 4, del d.lgs. 29/1993.

Ci si riferisce, in secondo luogo, alle funzioni indicate all'art. 20, lettera a) e lettera b), del medesimo DPR 266/1987. Funzioni che in via generale (a prescindere, cioè, da disposizioni settoriali, quali quelle relative al settore dell'amministrazione finanziaria che furono considerate da Corte cost. 228/1997), sono state estese ai funzionari dei ruoli “ad esaurimento” solo [nota 3] con l’art. 25, co 4, del d.lgs. n. 29/1993, ove si legge che al personale delle qualifiche ad esaurimento “sono attribuite funzioni vicarie del dirigente...”.

Per la giusta valorizzazione della professionalità nella pubblica amministrazione, dunque, i ruoli "ad esaurimento" andavano retribuiti meno o -a tutto voler concedere- andavano retribuiti alla pari (mentre di certo non si poteva incrementare il loro privilegio retributivo ad ogni tornata di contrattazione collettiva) rispetto ai colleghi dell'ex IX qualifica funzionale.

Si consideri che persino nel caso particolare dell'amministrazione finanziaria, nel quale una normativa settoriale riconosceva ai Direttori di Divisione e agli Ispettori “ad esaurimento” un potere vicario del dirigente, il T.A.R. dell'Umbria (nel sollevare la q.l.c. dell'art. 20, co 4, della legge 29/12/1990, n. 408 che sarebbe poi stata rigettata da Corte cost. 228/1997), ebbe modo di evidenziare che le posizioni degli impiegati della IX q.f. sarebbero da considerare almeno equiordinate, se non sovraordinate, rispetto a quelle dei funzionari dei ruoli ad esaurimento. Quel T.A.R. rimettente osservò, in particolare, che alla stregua dell'art. 20 del D.P.R n. 266/1987, rientra nelle attribuzioni del personale appartenente alla IX q.f. la sostituzione del dirigente in caso di assenza o impedimento, nonché la reggenza dell'ufficio in attesa della destinazione del dirigente titolare, allo stesso modo in cui al personale delle qualifiche “ad esaurimento” può essere affidata, ai sensi dell'art. 7, ottavo comma, del d.l. n. 688/1982, la reggenza temporanea di quegli uffici delle amministrazioni periferiche del Ministero delle finanze che per legge spetta ad un funzionario con qualifica di primo dirigente. Limitazione, questa relativa alla sostituzione dei soli primi dirigenti, non rinvenibile -sottolineava il TAR- nella disciplina relativa ai funzionari di IX qualifica [nota 4].


1- Il D.P.R. 8-5-1987 n. 266, "Norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo del 26 marzo 1987 concernente il comparto del personale dipendente dai Ministeri", all'art. 20 "Nona qualifica funzionale", ha stabilito: "1. Il personale appartenente alla nona qualifica funzionale, istituita dall'art. 2 del d.l. 28 gennaio 1986, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 1986, n. 78, espleta le seguenti funzioni: a) sostituzione del dirigente in caso di assenza o impedimento; b) reggenza dell'ufficio in attesa della destinazione del dirigente titolare; c) collaborazione diretta alla attività di direzione espletata dal dirigente; d) direzione di uffici, istituti o servizi di particolare rilevanza o di stabilimenti di notevole complessità non riservati a qualifiche dirigenziali; e) prestazioni per elaborazione, studio e ricerca altamente qualificata, richiedenti capacità professionali di livello universitario nei campi amministrativo, tecnico o scientifico, convalidate da documentate esperienze nel settore, ed ove necessario, da abilitazione all'esercizio della professione, ovvero da specializzazione post-universitaria; f) attività ispettive di particolare importanza, anche sulla gestione di progetti-obiettivo e di attività programmate, in funzione del conseguimento dei risultati e verifica degli stessi."

2- La sentenza del Tribunale di Roma del 24/9/2008 affermò che “Di fatto, almeno dal 1987, le funzioni della ex IX qualifica funzionale (oggi C3) sono divenute anche più ampie e qualificate, avuto riguardo all’art. 20 del DPR 266/87, rispetto a quelle delle due qualifiche ad esaurimento (direttore di divisione e ispettore generale), e comunque non inferiori”.

3- Cass. 16889/2015 conferma che le funzioni vicarie del dirigente sono state riconosciute ai Direttori di Divisione e agli Ispettori generali ad esaurimento solo col d.lgs. 29/1993, art. 25, co 4, e ricorda che tale riconoscimento è stato riprodotto nel d.lgs. n. 165/2001, art. 69, co 3.

4- In questi termini Corte cost. 228/1997 espone il contenuto dell'ordinanza di rimessione."

VANO SPERARE NEL PROSSIMO CCNL (che per la Cassazione è il luogo ove porre rimedio alle ingiustizie perpetate da CCNL precedenti) ?

Certamente se il prossimo CCNL non ci indennizzerà del maltolto nessuno si potrà lamentare. IN ITALIA, INFATTI, I CCNL (A DIFFERENZA DELLE LEGGI) SONO (LO DICE LA CASSAZIONE) INCENSURABILI DAL GIUDICE ANCHE SE DISCRIMINANO SENZA GIUSTIFICAZIONE TRA GRUPPI DI LAVORATORI QUANTO A TRATTAMENTO ECONOMICO !!!!!!!!!!!!!!

... e ricorda, per far meglio valere il tuo diritto al libero lavoro intellettuale, aderisci al gruppo aperto "concorrenzaeavvocatura" su facebook (conta già centinaia di adesioni). Unisciti ai tanti che rivendicano una vera libertà di lavoro intellettuale per gli outsiders e, finalmente, il superamento del corporativismo nelle professioni...


Ultimo aggiornamento Giovedì 05 Luglio 2018 12:11
 

Cass. Lav. 13579/16 su art. 36 Cost. e impiego pubblico: retribuite mansioni superiori di 2 livelli

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Si legge nella sentenza della Cassazione, Sez. Lavoro, 4 luglio 2016, n. 13579 (Pres. Napoletano, Rel. De Gregorio) che ha rigettato ricorso dell'I.N.P.S.:

"6.3 L’estensione della norma costituzionale [art. 36 Cost.] all’impiego pubblico è condivisa anche dalla dottrina giuslavoristica che evidenzia come – pur essendo a seguito del D.Lgs. n. 165 del 2001 il trattamento economico dell’impiegato disciplinato dalla contrattazione collettiva e pur essendo detta contrattazione non priva di vicoli unilateralmente opposti per fini di controllo della spesa pubblica (quali quelli derivanti dai primi tre commi dell’art. 48 del suddetto decreto) – i suddetti vincoli derivanti da esigenze di bilancio non impediscano comunque la piena operatività, anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall’art. 36 Cost.. Principio questo che per poggiare sulla peculiare corrispettività del rapporto lavorativo – qualificato dalla specifica rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare una attività contrassegnata dall’implicazione della stessa persona del lavoratore, il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia – da un lato ha portato autorevole dottrina a sganciare il rapporto giuridico retributivo dal novero dei diritti di credito per inquadrarlo tra i diritti assoluti della persona, e dall’altro ha spinto ad affermare, sulla base di una coessenzialità o di una stretta relazione dei due principi della sufficienza e della proporzionalità ostativa a qualsiasi rapporto gerarchico tra gli stessi, che l’attenuazione del principio sinallagmatico, integrato nel caso in esame dalla rilevanza della persona umana (che determina una traslazione del datore di lavoro del rischio della inattività del prestatore di lavoro, come in caso di sospensione del rapporto) attestano una dimensione sociale della retribuzione e la sentita esigenza della copertura a livello costituzionale dei diritti inderogabili del lavoratore.

6.4  .... Ne consegue che il principio della retribuzione proporzionato e sufficiente ex art. 36 Cost., è applicabile anche al pubblico impiego senza limitazioni temporali (cfr. al riguardo Cass. 17 aprile 2007 n. 9130 cui adde, da ultimo, Cass. 14 giugno 2007 n. 13877, che precisa anche che l’applicazione dell’art. 36 Cost. non debba però necessariamente tradursi in un rigido automatismo di spettanza al pubblico dipendente del trattamento economico esattamente corrispondente alle mansioni superiori ben potendo risultare diversamente osservato il precetto costituzionale anche mediante la corresponsione di un compenso aggiuntivo rispetto alla qualifica di appartenenza; ed ancora per lo stesso indirizzo: Cass. 14 giugno 2007 n. 13877; Cass. 8 gennaio 2004 n. 91; Cass. 4 agosto 2004 n. 19444).

6.5. Corollario di quanto sinora esposto è che – stante la valenza generale dei criteri parametrici fissati dalla norma costituzionale in materia di retribuzione – il disposto dell’art. 36 Cost. non può non trovare applicazione anche nelle fattispecie, analoghe a quella in esame, in cui la pretesa del lavoratore alla retribuzione corrispondente allo svolgimento dell’attività prestata riguardi mansioni superiori corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento (cfr. sul punto: Cass. 25 ottobre 2004 n. 20692)."

 

Ultimo aggiornamento Martedì 04 Ottobre 2016 16:15
 

Sentenza Tomášová della CGUE sulla responsabilità dello Stato-giudice

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La Corte di giustizia, con sentenza Tomášová del 28/7/2016 ha dichiarato che:

"1)      La responsabilità di uno Stato membro per danni cagionati ai singoli da una violazione del diritto dell’Unione mediante una decisione di un organo giurisdizionale nazionale può essere riconosciuta soltanto se tale decisione promani da un organo giurisdizionale di tale Stato membro che si pronuncia in ultimo grado, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare per quanto attiene alla controversia di cui al procedimento principale. In tal caso, una decisione di tale organo giurisdizionale nazionale che si pronuncia in ultimo grado può costituire una violazione sufficientemente qualificata del diritto dell’Unione, idonea a far sorgere detta responsabilità soltanto se, mediante tale decisione, detto organo giurisdizionale abbia manifestamente violato il diritto applicabile o se tale violazione avvenga nonostante esista una giurisprudenza consolidata della Corte in materia.

...

2)      Le norme relative al risarcimento di un danno causato da una violazione del diritto dell’Unione, come quelle riguardanti la valutazione di un tale danno o l’articolazione tra una domanda volta a ottenere tale riparazione e gli altri mezzi di ricorso eventualmente disponibili, sono determinate dal diritto nazionale di ciascuno Stato membro, nel rispetto dei principi di equivalenza e effettività."

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA ...

 

Ultimo aggiornamento Martedì 04 Ottobre 2016 16:16 Leggi tutto...
 

CGUE: il gruppo di impiegati pubblici discriminati sia pagato come il gruppo privilegiato

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La sentenza Pöpperl della Corte di giustizia (Prima Sezione) del 13 luglio 2016 in causa C-187/15 ha ad oggetto:

«Rinvio pregiudiziale – Articolo 45 TFUE – Libera circolazione dei lavoratori – Pubblico dipendente di uno Stato membro che ha lasciato il pubblico impiego per svolgere attività lavorativa in un altro Stato membro – Normativa nazionale che prevede, in tal caso, la perdita dei diritti all’erogazione di una pensione di vecchiaia acquisiti nel pubblico impiego e l’iscrizione retroattiva al regime generale di assicurazione vecchiaia». Vi si legge:

"46      Qualora il diritto nazionale preveda un trattamento differenziato tra vari gruppi di persone in violazione del diritto dell’Unione, i membri del gruppo sfavorito devono essere trattati allo stesso modo ed essere assoggettati allo stesso regime degli altri interessati. Il regime applicabile ai membri del gruppo favorito, in mancanza della corretta applicazione del diritto dell’Unione, resta il solo sistema di riferimento valido (v., in tal senso, sentenze del 26 gennaio 1999, Terhoeve, C‑18/95, EU:C:1999:22, punto 57; del 22 giugno 2011, Landtová, C‑399/09, EU:C:2011:415, punto 51, nonché del 19 giugno 2014, Specht e a., da C‑501/12 a C‑506/12, C‑540/12 e C‑541/12, EU:C:2014:2005, punto 95).

47      Come risulta dalla decisione di rinvio e come già rilevato al punto 36 supra, in caso di mutamento del datore di lavoro all’interno del territorio tedesco – che si tratti di un passaggio da un Land all’altro o di un passaggio alle dipendenze dell’amministrazione federale – gli interessati dispongono di diritti a una pensione di vecchiaia analoghi ai diritti già acquisiti presso il datore di lavoro pubblico iniziale. Tale quadro giuridico, pertanto, costituisce il sistema di riferimento valido.

48      Di conseguenza, anche i pubblici dipendenti tedeschi che abbiano rinunciato al proprio status al fine di svolgere un’attività lavorativa analoga in uno Stato membro diverso dalla Repubblica federale di Germania devono disporre di diritti a una pensione di vecchiaia analoghi ai diritti già acquisiti presso il datore di lavoro pubblico iniziale.

49      Alla luce delle suesposte considerazioni, si deve rispondere alla seconda questione pregiudiziale dichiarando che l’articolo 45 TFUE dev’essere interpretato nel senso che spetta al giudice nazionale assicurare la piena efficacia di tale articolo e riconoscere ai lavoratori, in una situazione come quella oggetto del procedimento principale, diritti alla pensione di vecchiaia analoghi a quelli dei pubblici dipendenti che conservano i diritti a un trattamento pensionistico corrispondente, malgrado un mutamento del datore di lavoro pubblico, agli anni di servizio compiuti, interpretando il diritto interno in conformità con detto articolo o, qualora un’interpretazione del genere non sia possibile, disapplicando ogni disposizione contraria di diritto interno al fine di applicare il medesimo regime applicabile ai detti dipendenti pubblici."

Ultimo aggiornamento Martedì 04 Ottobre 2016 16:16
 

Cour de cassation 851/2016 su indennità risarcitoria per privazione della qualità di avvocato

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La sentenza della Cour de cassation francese n. 851/2016 del 6/7/2016 interviene (dopo il Conseil constitutionnel) in materia di indennità risarcitoria per la privazione della qualità di avvocato. Richiama, al riguardo, l'art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (in particolare la sentenza Scordino c. Italia).

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA 851/2016 DELLA COUR DE CASSATION FRANCESE N. 851/2016 ...

Ultimo aggiornamento Martedì 20 Settembre 2016 10:46 Leggi tutto...
 

Regolamento su tenuta albi, elenchi e registri da parte dei Consigli dell'ordine degli avvocati

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MINISTERO DELLA GIUSTIZIA

DECRETO 16 agosto 2016, n. 178

Regolamento recante le disposizioni per la tenuta  e  l'aggiornamento di albi, elenchi e registri da parte dei Consigli  dell'ordine  degli avvocati,  nonche'  in  materia  di   modalita'   di   iscrizione   e trasferimento, casi di cancellazione, impugnazioni dei  provvedimenti adottati  in  tema  dai  medesimi  Consigli  dell'ordine,  ai   sensi dell'articolo 15, comma 2, della legge  31  dicembre  2012,  n.  247.

(GU n.213 del 12-9-2016) Vigente al: 27-9-2016...

 

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Ultimo aggiornamento Martedì 13 Settembre 2016 10:03 Leggi tutto...
 

Principio di legalità, autotutela e adeguamento al quadro normativo in ogni momento

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Si legge nella sentenza del Consiglio Nazionale Forense, n. 196/2016, depositata il  14/7/2016:

"L'esercizio della professione di avvocato in Italia è regolamentato nell'interesse pubblico (art. 1, comma 2, lett. a) L.P.) a tutela dell'affidamento della collettività e della clientela (art. 1, comma 2, lett. c) L.P.) e in considerazione della rilevanza costituzionale del diritto di difesa (art. 5, comma 1, L.P.). L'interesse pubblico alla rimozione dell'iscrizione nell'albo professionale dei soggetti privi di titolo abilitante all'esercizio della professione è dunque in re ipsa, anche alla luce dell'art. 33, c. V, della Costituzione, e non ha bisogno di specifica motivazione stante l'assenza ab origine di un requisito essenziale e imprescindibile ai fini dell'iscrizione stessa.

Secondo la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, III^, 25.2.2013, n. 1135) per i provvedimenti aventi effetti giuridici perduranti nel tempo il principio di legalità impone il loro adeguamento al quadro normativo di riferimento in ogni momento. Per tali atti l'interesse pubblico all'esercizio dell'autotutela deve pertanto ritenersi in re ipsa, identificandosi nella cessazione stessa di ulteriori effetti in contrasto con la legge. Indipendentemente da tale assorbente rilievo va ricordato che “in sede di adozione di atti di autotutela la comparazione tra interesse pubblico e quello privato è necessaria nel caso in cui l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di valutazione dovuti all'Amm.ne pubblica, non certo in via di principio quando lo stesso è dovuto a causa di comportamenti del soggetto privato che hanno indotto l'Autorità Amm.va ad emanare un atto risultato poi illegittimo” (Cons. Stato, VIA, 6.12.2013, n. 5854).

Va infine ad abundantiam osservato che il ricorrente alla data della cancellazione (22 Gennaio 2014) non aveva ancora maturato il triennio prescritto dall'art. 12, c. 1, del D.Lvo n. 96/2001 e pertanto nessun diritto aveva acquisito per l'iscrizione nell'albo ordinario.

Peraltro, l'articolo 21 nonies della L. n. 241/90 non fissa un termine ultimo oltre il quale l'esercizio dell'attività di autotutela è illegittima, riconducendo la valutazione in concreto in ordine alla tempistica della vicenda al parametro di valutazione della ragionevolezza del termine che nel caso in esame non può considerarsi irrazionale essendo di appena undici mesi e venti giorni.

Il potere di annullamento è stato quindi correttamente esercitato dal COA ai sensi dell'articolo 21 octies della legge n. 241/90 il quale dispone che: “è annullabile il provvedimento adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o incompetenza”.

Ne consegue pertanto il rigetto del ricorso, con ordine alla Segreteria del CNF, stante la specifica richiesta in tal senso del P.G., di trasmettere copia della presente sentenza alla Procura della Repubblica, perché abbia a valutare, la sussistenza di eventuali ipotesi di responsabilità penale per il reato di truffa."

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA N. 196/2016 DEL CNF ...

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Ultimo aggiornamento Venerdì 29 Luglio 2016 08:23 Leggi tutto...
 

267 TFUE è chiave di volta del sistema giurisdizionale UE => OK a dubbi su "maggior tutela"

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La Grande Sezione della Corte di giustizia, nella sentenza del 5/7/2016 in causa C-614/14, precisa che l'articolo 267 TFUE costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale nell'Unione europea e che occorre esser cauti nel sostenere che la normativa nazionale possa "resistere" alla disapplicazione per contrasto col diritto dell'Unione in quanto capace di garantire al singolo una maggior tutela del proprio diritto.

Si legge nella sentenza:

"15. Occorre anzitutto ricordare che il procedimento di rinvio pregiudiziale previsto dall'articolo 267 TFUE costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale nell'Unione europea il quale, instaurando un dialogo da giudice a giudice tra la Corte e i giudici degli Stati membri, mira ad assicurare l'unità di interpretazione del diritto dell'Unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l'autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell'ordinamento istituito dai Trattati (v. parere 2/13, del 18 dicembre 2014, EU:C:2014:2454, punto 176 e giurisprudenza ivi citata)."

...

32. A tal riguardo, occorre anzitutto rilevare che è inaccettabile l'assunto su cui poggia tale questione, secondo il quale la normativa nazionale oggetto del procedimento principale garantirebbe al singolo una maggiore tutela del proprio diritto di adire un giudice imparziale, ai sensi dell'articolo 47, secondo comma, della Carta. Infatti, come rilevato al punto 23 supra, la circostanza che, nella domanda di pronuncia pregiudiziale, un giudice nazionale esponga, conformemente ai requisiti derivanti dagli articoli 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura, il contesto di fatto e di diritto della controversia nel procedimento principale, di per sé, non viola tale diritto fondamentale. Di conseguenza, non si può ritenere che contribuisca a garantire la tutela di tale diritto l'obbligo di declinazione della competenza che la norma de qua impone al giudice del rinvio che ha provveduto a tale esposizione nell'ambito di un rinvio pregiudiziale."

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA, DEL 5/7/2016, DELLA GRANDE SEZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA SULLA CAUSA C-614/14 ...

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Ultimo aggiornamento Giovedì 05 Luglio 2018 12:11 Leggi tutto...
 

Precari scuola (docenti e personale ATA): sentenza Corte costituzionale 187 del 2016

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E' del 19 aprile 2016 la sentenza Dansk Industri della Grande sezione della Corte di giustizia (C-441/14) che impone di non limitare i risarcimenti, da parte dei datori di lavoro, alle categorie discriminate (neppure in considerazione dell'affidamento del datore di lavoro nella cogenza della legge nazionale vigente e neppure in considerazione del diritto dei discriminati ad esser risarciti dallo Stato per inadeguata attuazione del diritto dell'Unione europea). A mio avviso, La Corte costituzionale, nel decidere sulla questione dei precari della scuola, avrebbe dovuto tenere in maggiore considerazione i principi sanciti da questa recentissima sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia. Quest'ultima avrebbe dovuto pesare, nel giudizio della Corte costituzionale, ben più che l'archiviazione della procedura di infrazione "argomentata con riferimento alla normativa sopravvenuta".

Clicca su LEGGI TUTTO per leggere la sentenza 187/2016 della Corte costituzionale, depositata il 21 luglio 2016 (neretto e sottolineature sono le mie).

 

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Ultimo aggiornamento Giovedì 21 Luglio 2016 10:19 Leggi tutto...
 

ddl 2233: tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e del subordinato flessibile

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link al "fascicolo Iter" sul disegno di legge Atto Senato 2233 "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato".

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Ultimo aggiornamento Venerdì 01 Luglio 2016 12:01
 

Corte di giustizia (C-308/14) su un caso di discriminazione indiretta giustificata

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Con sentenza del 14 giugno 2016 nella causa C-308/14 la Corte di giustizia ha responto il ricorso per inadempimento col quale la Commissione europea chiedeva alla Corte di accertare che, imponendo a coloro che presentano domanda di assegni familiari o di credito d’imposta per figlio a carico di disporre del diritto di soggiorno nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, tale Stato membro è venuto meno agli obblighi incombentigli in forza dell’articolo 4 del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (GU 2004, L 166, pag. 1, e rettifica GU 2004, L 200, pag. 1).

La Corte ha ritenuto che la discriminazione indiretta, posta in essere dalla Gran Bretagna e censurata dalla Commissione, è una discriminazione consentita, in quanto giustificata e proporzionata.

Dopo aver rammentato che "Per essere giustificata, tale discriminazione indiretta dev’essere idonea a garantire il conseguimento di un obiettivo legittimo e non andare al di là di quanto necessario per il conseguimento dell’obiettivo medesimo", la Corte ha ritenuto:

-  che la necessità di proteggere le finanze dello Stato membro è un obiettivo legittimo;

-  che tale obiettivo non è perseguito in maniera sproporzionata se lo Stato membro ospitante controlli la regolarità del soggiorno al momento della concessione di una prestazione sociale a cittadino di altro Stato membro.

Riporto i punti da 76 a 86 della sentenza:

"76 Resta tuttavia il fatto che uno Stato membro ospitante che, ai fini della concessione di prestazioni sociali, come le prestazioni sociali di cui trattasi, richieda la regolarità del soggiorno di un cittadino di un altro Stato membro nel suo territorio commette una discriminazione indiretta.

77 Infatti, da una giurisprudenza costante della Corte emerge che una disposizione di diritto nazionale dev’essere giudicata indirettamente discriminatoria quando, per sua stessa natura, tenda ad incidere più sui cittadini di altri Stati membri che su quelli nazionali e, di conseguenza, rischi di essere sfavorevole in modo particolare ai primi (v., in tal senso, sentenza del 13 aprile 2010, Bressol e a., C‑73/08, EU:C:2010:181, punto 41).

78 Nell’ambito del presente ricorso, la normativa nazionale impone ai richiedenti le prestazioni di cui trattasi di disporre di un diritto di soggiorno nel Regno Unito. Pertanto, tale normativa crea una disparità di trattamento tra i cittadini britannici e i cittadini degli altri Stati membri, dato che una siffatta condizione di residenza è più facilmente soddisfatta dai cittadini nazionali, i quali risiedono abitualmente per lo più nel Regno Unito, che dai cittadini di altri Stati membri, i quali risiedono per contro, in linea generale, in uno Stato membro diverso dal Regno Unito (v., per analogia, sentenza del 13 aprile 2010, Bressol e a., C‑73/08, EU:C:2010:181, punto 45).

79 Per essere giustificata, tale discriminazione indiretta dev’essere idonea a garantire il conseguimento di un obiettivo legittimo e non andare al di là di quanto necessario per il conseguimento dell’obiettivo medesimo (v., in tal senso, sentenza del 20 giugno 2013, Giersch e a., C‑20/12, EU:C:2013:411, punto 46).

80 A tale proposito si deve constatare che dalla giurisprudenza della Corte risulta che la necessità di proteggere le finanze dello Stato membro ospitante giustifica in linea di principio la possibilità di controllare la regolarità del soggiorno al momento della concessione di una prestazione sociale in particolare alle persone provenienti da altri Stati membri ed economicamente inattive, poiché tale controllo può avere conseguenze sul livello globale dell’aiuto che può essere accordato da tale Stato (v., in tal senso, in particolare, sentenze del 20 settembre 2001, Grzelczyk, C‑184/99, EU:C:2001:458, punto 44; del 15 marzo 2005, Bidar, C‑209/03, EU:C:2005:169, punto 56; del 19 settembre 2013, Brey, C‑140/12, EU:C:2013:565, punto 61, e dell’11 novembre 2014, Dano, C‑333/13, EU:C:2014:2358, punto 63).

81 Per quanto riguarda la proporzionalità del criterio del diritto di soggiorno si deve constatare che, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 92 delle sue conclusioni, la verifica da parte delle autorità nazionali, nell’ambito della concessione delle prestazioni sociali in questione, del fatto che il richiedente non si trovi irregolarmente nel territorio deve essere considerata una fattispecie di controllo della regolarità del soggiorno dei cittadini dell’Unione, conformemente all’articolo 14, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2004/38, e deve di conseguenza soddisfare i requisiti di quest’ultima.

82 A tale proposito è necessario ricordare che, in forza dell’articolo 14, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, i cittadini dell’Unione e i loro familiari beneficiano del diritto di soggiorno di cui agli articoli 7, 12 e 13 di tale direttiva finché soddisfano le condizioni fissate negli stessi. In casi specifici, qualora vi sia un dubbio ragionevole che il cittadino dell’Unione o i suoi familiari non soddisfano le condizioni stabilite nei predetti articoli, gli Stati membri possono effettuare una verifica in tal senso. Orbene, l’articolo 14, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 prevede che tale verifica non sia sistematica.

83 Dalle osservazioni formulate dal Regno Unito nell’udienza dinanzi alla Corte risulta che, per ciascuna delle prestazioni sociali di cui trattasi, il richiedente deve indicare, nel modulo di domanda, una serie di dati grazie ai quali emerge l’esistenza o meno di un diritto di soggiorno nel Regno Unito; tali dati vengono poi verificati dalle autorità competenti per la concessione della prestazione di cui trattasi. Soltanto in casi particolari è imposto ai richiedenti di fornire la prova di essere effettivamente titolari di un diritto di soggiorno regolare nel territorio del Regno Unito, come da essi dichiarato nel modulo di domanda.

84 Dalle informazioni di cui dispone la Corte risulta quindi che, contrariamente a quanto sostiene la Commissione, il controllo del rispetto delle condizioni fissate dalla direttiva 2004/38 per l’esistenza del diritto di soggiorno non è effettuato sistematicamente e non è di conseguenza contrario alle disposizioni dell’articolo 14, paragrafo 2, della richiamata direttiva. Soltanto in caso di dubbio le autorità britanniche procedono alle verifiche necessarie per stabilire se il richiedente soddisfi o meno le condizioni previste dalla direttiva 2004/38, in particolare quelle di cui all’articolo 7, e, pertanto, se egli disponga di un diritto di soggiorno regolare nel territorio di tale Stato membro, ai sensi della richiamata direttiva.

85 In tale contesto la Commissione, alla quale incombe l’onere di dimostrare l’esistenza dell’inadempimento dedotto e di fornire alla Corte le prove necessarie affinché quest’ultima verifichi l’esistenza di tale inadempimento (v., in particolare, sentenza del 23 dicembre 2015, Commissione/Grecia, C‑180/14, EU:C:2015:840, punto 60 e giurisprudenza citata), non ha fornito elementi che dimostrino che tale controllo non risponde alle condizioni di proporzionalità, che non è idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo di protezione delle finanze pubbliche e che va al di là di quanto necessario per conseguire tale obiettivo.

86 Dalle considerazioni che precedono risulta che il fatto che la normativa nazionale di cui trattasi nell’ambito del presente ricorso preveda che, ai fini della concessione delle prestazioni sociali di cui trattasi, le autorità competenti del Regno Unito richiedano la regolarità del soggiorno nel loro territorio dei cittadini di altri Stati membri che presentano domanda per ottenere tali prestazioni non costituisce una discriminazione vietata ai sensi dell’articolo 4 del regolamento n. 883/2004."

 

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 15 Giugno 2016 12:18
 

Sanzioni a vari big dell'energia per pratiche aggressive nella fatturazione dei consumi

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Riporto dal sito dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato:

"COMUNICATO STAMPA

SANZIONI PER OLTRE 14 MILIONI DI EURO AD ACEA, EDISON, ENI, ENEL ENERGIA E SERVIZIO ELETTRICO PER PRATICHE AGGRESSIVE NELLA FATTURAZIONE DEI CONSUMI.

Con sanzioni per complessivi 14milioni e 530.000 euro, l’Antitrust ha concluso quattro procedimenti - avviati a luglio 2015 sulla base di numerose segnalazioni di singoli consumatori e diverse associazioni di consumatori – nei confronti di cinque big dell’energia: Acea, Edison, Eni, Enel Energia ed Enel Servizio Elettrico. I provvedimenti riguardano i meccanismi di fatturazione e le ripetute richieste di pagamento per bollette non corrispondenti a consumi effettivi, nonché gli ostacoli frapposti alla restituzione dei rimborsi.
Nel corso del procedimento, l’Aeegsi (Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico) ha reso un articolato parere, nell’ambito della collaborazione prevista dal Protocollo di intesa tra le due Autorità, che ha permesso all’Antitrust di individuare e accertare distinte pratiche aggressive. Nelle attività ispettive, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato s’è avvalsa anche della collaborazione del Nucleo speciale Antitrust della Guardia di Finanza.
A conclusione della sua istruttoria, l’Agcm ha accertato che le cinque società hanno posto in essere una prima pratica commerciale aggressiva: e cioè una gestione inadeguata delle istanze e delle comunicazioni di clienti finali che lamentavano la fatturazione di consumi di elettricità o di gas naturale divergenti da quelli effettivi. Questa era dovuta a deficienze del processo di fatturazione, a malfunzionamenti dei sistemi informatici e alla mancata sospensione delle attività di riscossione (sollecito, messa in mora e distacco, talvolta senza preavviso) nell’attesa di una risposta chiara, puntuale ed esaustiva. Nel caso di conguagli di elevato importo, inoltre, le imprese non avevano adottato misure per attenuare l’impatto della bolletta, senza informare adeguatamente gli utenti sulla possibilità di rateizzare né sui termini di pagamento più lunghi.
Secondo l’Antitrust, tali comportamenti hanno violato il diritto del cliente a ricevere un’adeguata ed effettiva assistenza e verifica dei propri consumi, prima di procedere al pagamento delle fatture contestate e, pertanto, costituiscono pratiche commerciali aggressive. Ciò in quanto l’incombente minaccia dell’avvio o della prosecuzione delle procedure di riscossione costituisce, a parere dell’Autorità, un indebito condizionamento delle scelte del consumatore in merito al pagamento dei consumi non verificati e alla presentazione delle istanze e delle comunicazioni
Una seconda pratica scorretta, accertata dall’istruttoria, riguarda la mancata o ritardata restituzione di importi dovuti a vario titolo ai clienti finali. L’Autorità ha ritenuto, infatti, che le modalità informative e procedurali adottate dai cinque operatori non hanno permesso ai consumatori di ricevere pienamente e tempestivamente quanto versato in eccesso per la fornitura di energia elettrica o di gas.
Per le due società del gruppo Enel, infine, è stata accertata una terza pratica scorretta: questa consisteva nell’addebito degli interessi di mora per tardivo pagamento, anche in caso di bollette recapitate in ritardo o non recapitate e in presenza di un reclamo in tal senso.
In considerazione delle specificità di ciascuna condotta e della dimensione dei fenomeni riscontrati, l’Antitrust ha irrogato rispettivamente le seguenti sanzioni:

- Acea: 3.600.000 euro
- Edison: 1.725.000 euro
- Eni: 3.600.000 euro a Eni
- Enel Energia: 2.985.000 euro
- Enel Servizio Elettrico: 2.620.000 euro

Nel corso dei procedimenti, gli operatori hanno proposto modifiche alle procedure utilizzate finora nella gestione delle istanze e dei reclami da parte dei consumatori e anche per migliorare i processi di fatturazione. In considerazione di questi elementi, le sanzioni sono state ridotte in misura proporzionale al grado di rilevanza ed effettiva implementazione di tali innovazioni.

Roma, 13 giugno 2016

Qui i provvedimenti (PS9354 per ACEA ENERGIA; PS9541 per EDISON; PS9542 per ENI; PS9883 per ENEL ENERGIA.

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 15 Giugno 2016 12:18
 

Disegno di legge su piattaforme digitali ed economia della condivisione

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 E' ormai avviato l'esame della proposta di legge AC3564, "Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell'economia della condivisione".

Un buon sito per approfondire la tematica dell'economia della condivisione è www.collaboriamo.org

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Ultimo aggiornamento Martedì 07 Giugno 2016 11:39
 

Piero Alberto Capotosti sui limiti della delegificazione (in relazione al CNF-giudice speciale)

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Nel parere reso dal Prof. Piero Alberto Capotosti al CNF in tema di applicabilità al CNF stesso dell'art. 3, co 5, lettera f) del decreto-legge 13/8/2011, n. 138, trovi una interessante ricognizione dei limiti della c.d. delegificazione. Si legge al punto 4 del detto parere:

"4. — Se questo è il quadro normativo vigente si impone dunque una sintetica ricognizione dei limiti propri e caratterizzanti dell’istituto della delegificazione nell’ordinamento costituzionale ed in primo luogo dei limiti posti dall’art. 17, comma 2, della legge 400 del 1988, in quanto pur se si tratta di una norma di legge ordinaria, non idonea, in quanto tale, a condizionare le successive leggi successive, i limiti che essa individua a questo riguardo costituiscono la pura ricognizione di condizioni poste dalla Costituzione all’utilizzo della fonte regolamentare.

Si tratta essenzialmente di un doppio ordine di limitazioni.

In primo luogo, la delegificazione viene esclusa nelle materie riservate in via assoluta alla legge, e ciò per la ragione che regolamenti sostitutivi della legge non possono darsi in quegli ambiti dove l’intervento della fonte secondaria è precluso in radice da una disposizione costituzionale; in secondo luogo, la delegificazione viene esclusa se non accompagnata dalla previa posizione da parte del legislatore delle “norme generali” regolatrici della materia, e questo perché, in forza del principio costituzionale di legalità, non possono darsi regolamenti che intervengono come “liberi”, e cioè abilitati a disciplinare interi ambiti normativi in difetto di una previa regolazione generale da parte del legislatore (Corte costituzionale, ordinanza n. 359 del 2005).

Secondo la giurisprudenza costituzionale, detti limiti sono suscettibili di operare in una duplice forma, ancora una volta discendente dai caratteri propri dell’istituto.

Nel caso che il loro superamento risulti infatti direttamente imputabile alla legge di delegificazione – per aver essa abilitato il regolamento alla disciplina di ambiti ad esso costituzionalmente preclusi, o per averlo autorizzato ad operare in difetto di una previa determinazione di norme generali della materia – il vizio, riguardando appunto l’atto legislativo, deve farsi nelle forme del giudizio di costituzionalità (sentenza n. 427 del 2000). L’invalidità della legge di autorizzazione, nel caso, non può non riflettersi immediatamente sulla fonte regolamentare autorizzata, che ne risulta allora viziata in via indiretta.

Nel caso che invece il loro superamento sia imputabile al solo regolamento autorizzato – per aver questo travalicato l’ambito di competenza attribuitogli o per aver contraddetto le norme generali poste dalla legge – il vizio, riguardando appunto il solo atto regolamentare, deve farsi valere nelle forme conseguenti dell’annullamento o della disapplicazione da parte del giudice comune (ordinanza n. 401 del 2006).

In quanto imposte direttamente dalla Costituzione, queste limitazioni risultano intrinseche all’istituto, e condizionano dunque necessariamente l’ambito della procedura di delegificazione in oggetto, a pena di incostituzionalità. In primo luogo, escludendo dal suo raggio di azione le materie riservate in via assoluta alla legge, che sono inibite alla fonte secondaria; in secondo luogo, escludendo che tale fonte possa spingersi al di fuori degli specifici settori della materia, puntualmente

individuati dai criteri di cui alle lettere da a dell’art. 3, comma 5, in esame: al di fuori di quelli, infatti, il regolamento sarebbe abilitato a sostituire discipline legislative in difetto di norme legislative di riferimento, operando quindi, in modo inammissibile, alla stregua di una fonte primaria."

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Ultimo aggiornamento Martedì 31 Maggio 2016 09:54
 

Delegificazione in mancanza di principi e criteri direttivi: delega al riordino è "minimale"

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Il Consiglio di Stato, con sentenza 470/2016, depositata il 5/2/2016, ha ribadito che in tema di delegificazione ai sensi dell'art. 17, co 2, l. 400/1988, le disposizioi regolamentari devono trovare "copertura" nei criteri fissari alla potestà regolamentare dalla legge di delegificazione. Ricorda pure come si tratti di "<<criteri>> da qualificare, con una più appropriata terminologia, come <<norme generali regolatrici>> ai sensi dell'art. 17, comma 2, l. n. 400 del 1988, le quali, secondo la giurisprudenza costtituzionale, assolvono ad una funzione delimitativa stringente della potestà regolamentare governativa nelle materie delegificate. Vedi sent. Corte cost. n. 303/2005".

Dunque, a maggior ragione, le Delibere del Comitato dei delegati di Cassaforense alle quali la legge abbia affidato il potere di ...

SI CONSIDERI POI LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 303/2005 (PURE CITATA DA LLA SENTENZA 470/2016 DEL CONSIGLIO DI STATO). Vi si legge ai punti 2 e 3 del "considerato in diritto":

"2. – La prima questione, concernente l'art. 3, comma 78, della legge n. 662 del 1996, non è fondata.
La Commissione tributaria rimettente basa i propri dubbi di illegittimità costituzionale sull'erronea premessa interpretativa che la denunciata norma di delegificazione, prevedendo il «riordino» degli aspetti fiscali della materia, consentirebbe al regolamento governativo anche l'individuazione dei soggetti passivi dell'imposta sulle scommesse relative alle corse dei cavalli, così violando l'art. 23 Cost.
Occorre al riguardo preliminarmente rilevare che questa Corte, a proposito dell'ipotesi analoga (sotto tale aspetto) di delega legislativa volta al «riordino» di una materia, ha più volte affermato che, «in mancanza di princípi e criteri direttivi che giustifichino la riforma» della normativa preesistente, la delega «deve essere intesa in un senso minimale, tale da non consentire, di per sé, l'adozione di norme delegate sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo» (v. la sentenza n. 354 del 1998, richiamata dalle sentenze n. 66 del 2005 e n. 239 del 2003).
Nella specie, la norma censurata si limita a consentire all'autorità governativa di provvedere – con regolamento da emanare ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988 – «al riordino della materia dei giochi e delle scommesse relativi alle corse dei cavalli, per quanto attiene agli aspetti organizzativi, funzionali, fiscali e sanzionatori, nonché al riparto dei proventi», secondo i princípi elencati nella stessa disposizione. Contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, tale norma, non prevedendo alcuna specifica direttiva in ordine ai soggetti passivi di imposta, lascia immutata la disciplina legislativa concernente gli elementi strutturali del suddetto tributo e, quindi, impone al regolamento di delegificazione di mantenere gli stessi soggetti passivi indicati dalla legislazione preesistente. Resta di conseguenza esclusa la denunciata violazione del principio della riserva relativa di legge in tema di prestazioni patrimoniali imposte, sancito dall'art. 23 Cost., e degli altri evocati parametri costituzionali. Il giudice a quo aveva dunque l'obbligo di individuare i soggetti passivi dell'imposta in base alle leggi vigenti in materia.

3. – La seconda questione sollevata dalla stessa Commissione tributaria, concernente l'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, è inammissibile.

La censura del rimettente si articola in diversi assunti, tra loro strettamente connessi, nessuno dei quali è motivato. Il giudice a quo omette, infatti, sia di esplicitare le ragioni per le quali ritiene di porsi in contrasto con l'unanime opinione dottrinale secondo cui (data anche l'evidente differenza semantica tra i termini “norma” e “principio”) le «norme generali regolatrici della materia» hanno, tendenzialmente, una funzione delimitativa più stringente rispetto ai «princípi e criteri direttivi»; sia di precisare le “norme generali regolatrici della materia” delegificata affette dal dedotto vizio di genericità e delle quali dovrebbe fare applicazione nel giudizio principale. Tali carenze rendono la questione inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza."


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Ultimo aggiornamento Martedì 31 Maggio 2016 09:34
 

Corte cost. 108/2016: ius superveniens e affidamento su diritti acquisiti CON CONTRATTO

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La Corte costituzionale, con sentenza 108/2016, depositata il 20/5/2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 44 e 45 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), nella parte in cui non esclude dalla sua applicazione i contratti di conferimento delle mansioni superiori di direttore dei servizi generali ed amministrativi stipulati antecedentemente alla sua entrata in vigore.

Le censure rivolte dal giudice rimettente al combinato disposto dei commi 44 e 45 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012 sono state così sintetizzate dalla Corte costituzionale:

a) violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’affidamento (viene lamentato come la norma successiva venga ad “azzerare” il compenso pattuito dalla ricorrente con l’amministrazione per lo svolgimento delle mansioni superiori, adempimento che rimane comunque a carico della ricorrente anche in assenza di corrispettivo);

b) violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto il criterio introdotto dalla legge di stabilità 2013 produrrebbe la progressiva riduzione del compenso per le mansioni superiori in proporzione inversa alla progressione economica del dipendente, sino ad annullarlo quando il trattamento economico, per effetto degli scatti maturati in conseguenza del servizio, sia tale da superare lo stipendio tabellare iniziale del DSGA;

c) violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione alla direttiva n. 2000/78/CE in tema di divieto di discriminazioni basate sull’età del lavoratore, dal momento che si verificherebbe una disparità di trattamento inversamente proporzionale all’anzianità di servizio del personale interessato ad assumere le mansioni superiori.

Si legge al punto 3 del "considerato in diritto": "Tra le questioni in esame non esiste un rapporto di priorità logico-giuridica. La Corte ritiene opportuno esaminare preliminarmente se l’impugnata disposizione abbia effettivamente leso il principio dell’affidamento, custodito da una delle molteplici declinazioni dell’art. 3 Cost."

Dunque, limitandosi ad analizzare la censura di violazione dell'affidamento (di cui alla lettera a), la Corte scrive:

"Il principio dell’affidamento, benché non espressamente menzionato in Costituzione, trova tutela all’interno di tale precetto tutte le volte in cui la legge ordinaria muti le regole che disciplinano il rapporto tra le parti come consensualmente stipulato. È bene in proposito ricordare che, pur non potendosi escludere che il principio per cui il contratto ha forza di legge tra le parti (art. 1372 del codice civile) possa subire limitazioni da fonte esterna, e quindi non necessariamente consensuali, non è consentito che la fonte normativa sopravvenuta incida irragionevolmente su un diritto acquisito attraverso un contratto regolarmente stipulato secondo la disciplina al momento vigente.

Si tratta in sostanza di verificare se nel caso di specie sussistano le condizioni per la tutela di un legittimo affidamento del funzionario nei confronti della norma sopravvenuta. A tal proposito occorre sottolineare come la difesa dello Stato abbia giustificato gli effetti retroattivi della disposizione impugnata sul contratto già stipulato con il particolare momento di difficoltà economica, che ha spinto il legislatore ad adottare eccezionali misure di contenimento della spesa. A fronte di tale esigenza si spiegherebbero, da un lato, il sacrificio imposto al lavoratore e, dall’altro, il mantenimento dei suoi obblighi lavorativi in ossequio al principio di continuità nello svolgimento della delicata funzione affidatagli.

In definitiva, la questione da dirimere consiste nel verificare se la certezza del diritto, correlata alle esigenze di stabilità, di sicurezza e definitività dei rapporti giuridici nascenti dal contratto, sia comprimibile da un dato normativo successivo ispirato alle eccezionali esigenze di contenimento della spesa.

4.– Alla luce di quanto premesso, la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della tutela dell’affidamento, è fondata.

Nel caso in esame, l’inserzione automatica di una clausola di legge – quella che applica retroattivamente ai contratti stipulati in data 1° settembre 2012, antecedente all’entrata in vigore della legge di stabilità, il meccanismo scalare di determinazione del corrispettivo dovuto al dipendente affidatario delle mansioni superiori di DSGA – nel tessuto contrattuale già consolidato viene a stravolgere in modo sproporzionato alcuni elementi che caratterizzano in maniera pregnante il contratto in questione. Sotto tale profilo, è necessario sottolineare: a) l’incidenza retroattiva sui presupposti del consenso, in relazione alla cui formazione risulta determinante – per la parte privata – il fattore della retribuzione, in concreto azzerato dalla norma sopravveniente; b) la lesione della certezza dei rapporti giuridici, considerato l’affidamento del contraente su un rapporto negoziale di natura corrispettiva; c) la modifica unilaterale, per fatto del legislatore, degli effetti del contratto, in relazione ai quali si evidenzia la asimmetria tra il permanere immutato degli obblighi di servizio e l’affievolimento del diritto alla retribuzione delle mansioni superiori.

Per quanto riguarda l’accertamento della lesione al principio dell’affidamento sulla certezza dei rapporti giuridici, non è inoltre indifferente il fatto che proprio il legislatore, dopo aver introdotto un sistema normativo basato sul principio della corrispettività, pretende di rimuovere le conseguenze contrattuali derivanti dall’assetto preesistente alla disposizione impugnata.

Ai fini della presente decisione non è altresì irrilevante l’elemento temporale che ha caratterizzato la scansione cronologica intercorrente tra la stipula del contratto e il mutamento normativo. Con riguardo all’elemento temporale, questa Corte ha già avuto modo di precisare i rapporti tra la stabilità dei vincoli negoziali di durata e le sopravvenienze normative, affermando che «non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Dette disposizioni però, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto (sentenze n. 36 del 1985 e n. 210 del 1971).» (sentenza n. 349 del 1985).

Nel caso in esame, l’elemento temporale gioca in senso opposto a quello del richiamato precedente giurisprudenziale ma in modo altrettanto significativo sul piano dell’affidamento: assume rilievo, cioè, la brevità del lasso temporale, appena quattro mesi, tra il momento in cui il funzionario ha stipulato il contratto – sulla base di una normativa prevista nel contratto collettivo di lavoro e, per di più, stabile nel tempo – e quello di entrata in vigore della nuova disposizione, radicalmente differente proprio con riguardo alle modalità retributive. Queste ultime sono state presumibilmente decisive nell’esercizio della precedente opzione di chiedere l’assegnazione alle mansioni superiori. È evidente in questo caso la lesione dell’affidamento del dipendente che, dopo la stipula, ha ormai fatto aggio sulla remunerazione della funzione temporaneamente affidatagli.

Oltre all’elemento temporale non possono essere disconosciuti, nel caso in esame, il grado di meritevolezza dell’affidamento e la sproporzione dell’intervento legislativo che lo comprime.

Sotto il primo profilo, deve essere considerata l’obiettiva configurazione incentivante del quadro normativo antecedente, il quale, attraverso una retribuzione certa, induceva l’assistente amministrativo ad accettare compiti e funzioni altrimenti non sufficientemente convenienti. Non vi è dubbio che la candidatura all’esercizio temporaneo alle mansioni superiori si fondi sullo stimolo normativo costituito dalla certezza della retribuzione. Insomma, l’esistenza di un nesso eziologico tra la retribuzione e la scelta di esercitare le mansioni superiori appare, almeno sotto il profilo astratto, difficilmente confutabile e, in quanto tale, rende recessive le ragioni del contenimento della spesa rispetto alla salvaguardia del legittimo affidamento.

Sotto il secondo profilo, risulta non proporzionato il sacrificio imposto al titolare di una situazione soggettiva perfetta derivante da un contratto regolarmente stipulato rispetto all’esigenza di contenimento della spesa. Occorre ricordare che la norma non appare corredata da alcuna relazione tecnica circa i risparmi da conseguire e tale stima sarebbe obiettivamente difficile, considerato che la platea dei potenziali assuntori dell’incarico di mansioni superiori varia da soggetti che godrebbero della stessa retribuzione prevista dal vecchio assetto normativo ad altri che la perderebbero completamente.

Pertanto, il bilanciamento tra la posizione privata incisa dalla retroattività della norma e l’interesse pubblico sotteso al contenimento della spesa rende la disposizione stessa contrastante con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della lesione del principio dell’affidamento.

5.– Alla luce delle esposte considerazioni, il combinato disposto dei commi 44 e 45 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude dalla sua applicazione i contratti di conferimento delle mansioni superiori stipulati antecedentemente all’entrata in vigore dello stesso.

Per quanto argomentato, rimangono assorbite le ulteriori censure sollevate in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost."

          Clicca su "LEGGI TUTTO" per leggere la sentenza della Corte costituzionale n. 108/2016 e l'ordinanza di rimessione del Tribunale di Torino che aveva sollevato anche le questioni (rimaste assorbite) della irragionevolezza intrinseca della legge sopravvenuta e della violazione dell'art 117, primo comma, Cost. (il quale sancisce l'obbligo della legge di conformarsi al diritto  dell'Unione Europea), avuto riguardo agli artt. 1 e 2 della direttiva  comunitaria 2000/78/CE ... 

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Ultimo aggiornamento Lunedì 30 Maggio 2016 08:26 Leggi tutto...
 

21/6/2016: Corte costituzionale su costituzionalità dei giudici speciali delle professioni sanitarie

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La Corte costituzionale esaminerà nell'udienza pubblica del 21 giugno 2016 la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla seconda sezione civile della Cassazione, con ordinanza di rimessione n. 596 del 15 gennaio 2015 (il link all'ordinanza lo trovi nell'ottimo articolo di Marina Castellaneta intitolato "Iscrizione all’ordine dei medici: dubbi sulla costituzionalità del procedimento dinanzi alla Commissione per le professioni sanitarie", sul sito www.marinacastellaneta.it), riguardante il giudice speciale della disciplina e della tenuta degli albi dei medici e cioè la Commissione per le professioni sanitarie.  Però le argomentazioni adoperate dalla Cassazione sono evidentemente valide anche per contestare anche a tanti altri giudici speciali di tante altre categorie professionali una intollerabile carenza di terzieta'. Ovviamente, il premio "Il più incostituzionale di tutti" sarà assegnato al  Consiglio Nazionale Forense. È solo questione di tempo (poco). Il CNF, infatti, è un raro esempio di amministratore-legislatore-giudice; un vero distillato di corporativismo che Corte costituzionale e Cassazione hanno sino ad oggi salvato dalla storia. Per fortuna anche le corporazioni professionali stanno tramontando: era ora, a distanza di qualche anno dalla caduta del fascismo che sull'organizzazione delle corporazioni fondò gran parte del suo potere.

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Ultimo aggiornamento Venerdì 20 Maggio 2016 15:02
 

Vincenzo De Michele sulle sentenze della CGUE di aprile 2016 "Dansk Industri" e "Puligienica"

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A proposito delle sentenze della Corte di giustizia Dansk Inustri (del 19/4/2016, in causa C-441/14) e Puligienica Facility Esco spa (del 5/4/2016, in causa C-689/13), nel sito www.europeanrights.eu (newsletter n. 56 del 15/5/2016) trovi un interessante articolo di Vincenzo De Michele, intitolato "Interpretazione conforme, disapplicazione, principio di uguaglianza e non discriminazione: attraverso la Carta di Nizza la Corte di giustizia riafferma la primazia del diritto dell'Unione e la stabilità del sistema giurisdizionale europeo".
QUESTO IL SOMMARIO:
1. La sentenza Dansk Industri della Corte di giustizia e l’applicazione orizzontale del principio Ue di uguaglianza e di non discriminazione nelle controversie tra privati.
2. Dall’interpretazione conforme alla disapplicazione della norma interna in contrasto con l’ordinamento Ue: dalla sentenza Pfeiffer alle sentenze Cordero Alonso e Fuß della Corte di giustizia.
3. La sentenza Kücükdeveci: la Corte di giustizia sembra procedere senza indugi nell’applicazione in orizzontale in controversie tra privati dei principi della Carta di Nizza.
4. La Corte di giustizia si propone come Corte costituzionale europea nella sentenza Association Belge des Consommateurs Test-Achats. Il conflitto latente con la Corte  Edu e il sostegno delle Corti costituzionali.
5. La sentenza Association de médiation sociale e l’apparente rallentamento della Corte di giustizia nell’applicazione in orizzontale alle controversie tra privati della Carta di Nizza.
6. La sentenza Dansk Industri nel cono d’ombra della Carta di Nizza e dei principi generali del diritto Ue da essa costituzionalizzati, tra interpretazione conforme “energica” e disapplicazione della norma interna “illegittima”.

IMPORTANTI LE CONSIDERAZIONI DELL'AUTORE AL PARAGRAFO 6 !

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Ultimo aggiornamento Martedì 17 Maggio 2016 10:44
 

Cass. SS.UU. 752/2007 su notifica a autorità amministrativa anzichè all'Avvocatura dello Stato

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Cassazione Sez. Un. Civili , 16 gennaio 2007, n. 752 - Pres. Carbone - Est. Toffoli.
Procedimento civile - Notificazione - Nullità - In genere - Giudizio di primo grado in materia di lavoro - Costituzione della PA a mezzo di un funzionario - Ricorso per cassazione - Notifica - Alla PA - Esclusione - Art. 23, 4° comma, legge n. 689 del 1981 - Ipotesi eccezionale.

"La notifica del ricorso per cassazione all'autorità amministrativa anziché all'Avvocatura dello Stato è possibile solo nell'ipotesi eccezionale di cui all'art. 23, 4° comma della legge n. 689 del 1981, che permette all'autorità, ed eventualmente all'organo periferico che ha emanato l'atto impugnato, di stare in giudizio per mezzo di un proprio funzionario; diversamente, qualora la P.A., parte del rapporto di lavoro dedotto in giudizio, siasi costituita direttamente e attraverso un proprio dipendente nel giudizio di primo grado, ai sensi dell'art. 417 bis cod. proc. civ., gli atti degli ulteriori gradi o fasi del giudizio devono essere notificati all'Avvocatura dello Stato." (massima ufficiale)

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA 752/2007 DELLE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE ...

 

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Ultimo aggiornamento Domenica 15 Maggio 2016 21:47 Leggi tutto...
 

Cassazione sentenza 9451 del 10 aprile 2016: non paga IRAP chi ha solo un dipendente "esecutivo"

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Le Sezioni Unite della Cassazione hanno enunciato, nella sentenza n. 9451, depositata il 10 aprile 2016, il seguente principio di diritto: "Con riguardo al presupposto dell'IRAP, il requisito dell'autonoma organizzazione -previsto dall'art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 446-, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive".

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Ultimo aggiornamento Giovedì 12 Maggio 2016 11:18
 

Cassazione Lavoro 5/5/16: repliche dell'avv. Perelli al PM su discriminazione indiretta per età

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Riporto di seguito le repliche scritte che sono state depositate per l'avv. Maurizio Perelli, nel corso dell'udienza tenutasi il 5 maggio 2016 innanzi alla Sezione Lavoro della Cassazione, contro le conclusioni del Pubblico Ministero. Si controverteva del dovere della Sezione Lavoro di disapplicare quelle norme dell'ordinamento interno (norme di legge e di vari contratti collettivi del comparto ministeri) che, in quanto prevedono, in tema di retribuzione, una discriminazione indiretta per età a danno degli impiegati dell'ex nona qualifica funzionale rispetto ai loro colleghi Direttori di Divisione e Ispettori Generali "ad esaurimento", appaiono in evidente conrtrasto con la direttiva 2000/78/CE che tal genere di discriminazioni vieta.


Queste le repliche scritte che sono state depositate:

"La sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia del 19 aprile 2016 nella causa Dansk Industri (C-441/14), resa a seguito di quesiti pregiudiziali posti dalla Corte Suprema danese:
1) al punto 22 afferma che "il principio generale della non discriminazione in ragione dell’età, che la direttiva 2000/78/CE esprime concretamente, ... ora sancito all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere considerato un principio generale del diritto dell’Unione”;
2) al punto 36 afferma che "il principio della non discriminazione in ragione dell’età conferisce ai privati un diritto soggettivo evocabile in quanto tale che, persino in controversie tra privati (e certamente in controversie come quella che ci occupa tra un lavoratore e un datore di lavoro pubblico), obbliga i giudici nazionali a disapplicare disposizioni nazionali non conformi a detto principio”;
3) al punto 42 e nella dichiarazione finale n. 2 afferma che tale diritto evocabile in giudizio non può esser limitato: nè in considerazione dell'affidamento del datore di lavoro che si sia conformato al diritto nazionale nel trattamento economico del lavoratore; nè per il fatto che i lavoratori discriminati in malam partem in ragione dell’età possano ottenere il risarcimento del danno causato loro dalla trasposizione inesatta della direttiva 2000/78/CE nel diritto interno.   
Con ciò la sentenza Dansk Industri chiarisce anche, per quanto riguarda la presente causa, il contenuto del diritto soggettivo dei lavoratori a non esser discriminati quanto a retribuzione (neppure indirettamente in ragione dell’età, si deve ritenere) e completa la "risposta chiara" che la giurisprudenza della Corte di giustizia ha già dato (come ho dimostrato ai punti 4.3; 4.3.1 e 4.3.2 della memoria depositata per il controricorrente Maurizio Perelli il 26/4/2016) su quale sia il contenuto del diritto risarcitorio del mio assistito e degli altri impiegati dell’ex IX qualifica funzionale controricorrenti in Cassazione, in quanto discriminati indirettamente per età, come categoria.    Cioè la sentenza Dansk Industri toglie ogni dubbio sul fatto che sia dovuto un risarcimento integrale (così come stabilito dalla sentenza d’appello impugnata dal Ministero) nel senso che non si possa limitare il diritto risarcitorio del mio assistito ma gli si debba concedere retroattivamente un importo corrispondente alla differenza tra la retribuzione da lui percepita e la retribuzione concessa alla categoria privilegiata degli Ispettori Generali “ad esaurimento”.         Ciò in linea con quanto fu sancito dalla sentenza Terhoeve (C-18/95) punto 57 e dalla sentenza Landtovà (C-399/09) punto 51, ed è stato confermato dalla sentenza Schmitzer (C-530/13) punti 42 e 44; dalla sentenza Specht (C-501/12) indirettamente ai punti 62, 64, 69, 72, 73, 87, 93, 95 e 96; dalla sentenza Unland (C-20/13) indirettamente ai punti 42, 43, 46, 67, 68 e 69; dalla sentenza Maria Auxiliadora Arjona Camacho (C-407/14) indirettamente soprattutto punti 29 e 33.
Tale "risposta chiara" e ormai completa della Corte di giustizia è rilevante, in quanto tale, ai sensi della sentenza Puligienica Facility Esco Spa del 5 aprile 2016 (causa C-689/13). Impone a codesta Sezione di giudice di ultima istanza di disapplicare la normativa interna rilevante in causa (se intesa come la intende il quarto motivo del ricorso ministeriale) anche in contrasto con la propria costante giusiprudenza e senza attivare le Sezioni Unite. In caso di dubbio sulla sussistenza della detta "risposta chiara" già data dalla Corte di giustizia si dovranno proporre quesiti pregiudiziali a quella Corte
."

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Ultimo aggiornamento Giovedì 12 Maggio 2016 11:20
 

Retribuire gli impiegati ministeriali ex IX q.f. come i Direttori di Divisione a esaurimento ?

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Quella dell’equiparazione retributiva dei “ministeriali” della IX qualifica funzionale rispetto ai loro colleghi Direttori di Divisione e Ispettori Generali “a esaurimento” è questione che si agita da anni ed ha portato a molte sentenze della Sezione Lavoro della Cassazione che:
1) hanno affermato la non soggezione della contrattazione collettiva al principio di pari trattamento contrattule sancito dall'art. 45 del d.lgs. 165/2001;
2) hanno fatto derivare da ciò il rigetto della pretesa degli impiegti della IX qualifica funzionale ad ottenere il pagamento delle differenze retributive rispetto ai colleghi Direttori di Divisione e Ispettori Generali "a esaurimento".
E' anche vero, però che:
a) nessuna sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione ha esaminato la rilevanza della sentenza della Corte costituzionale n. 228/1997, sulla quale si può fondare una questione di legittimità costituzionale delle norme di legge (lo stesso art. 45 del d.lgs. 165/2001) che si ritenessero capaci di abilitare i CCNL a discriminare quanto a retribuzione gli impiegati della ex IX qualifica funzionale rispetto ai  colleghi (di area C) Direttori di Divisione e agli Ispettori Generali "ad esaurimento";
b) nessuna sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione ha esaminato la rilevanza di alcune sentenze del 2014 e del 2015 della Corte di giustizia che riguardano l’interpretazione della direttiva 2000/78/CE (che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento anche in materia di retribuzioni dei lavoratori pubblici) e che dimostrano che la normativa italiana (art. 45 del d.lgs. 165/2001 e contratti collettivi che nel tempo hanno non solo mantenuto ma addirittura ampliato la differenza retributiva tra ex IX q.f. e ruoli "ad esaurimento") realizza una discriminazione indiretta per età.  Sono del 2014: la sentenza Specht, la Schimitzer, la Vital Perez. Sono del 2015: la sentenza Starjakob, la Unland, la O contro Bio Philippe August SARL;
c) infine, sono sopraggiunte ad aprile 2016 altre due importantissime sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea. Si tratta della sentenza PULIGIENICA FACILITY ESCO (del 5 aprile 2016) e della sentenza DANSK INDUSTRI (del 19 aprile 2016).

Quanto alla sentenza DANSK INDUSTRI, con la quale la Grande Sezione della Corte di giustizia ha risposto ai quesiti pregiudiziali posti dalla Corte Suprema danese proprio in ordine all'interpretazione della direttiva 2000/78/CE):
- ribadisce in maniera categorica, al punto 36, che “il principio della non discriminazione in ragione dell’età conferisce ai privati un diritto soggettivo evocabile in quanto tale che, persino in controversie tra privati (e certamente in controversie tra un lavoratore e un datore di lavoro pubblico), obbliga i giudici nazionali a disapplicare disposizioni nazionali non conformi a detto principio”;
- chiarisce il contenuto di tale diritto soggettivo a non esser discriminati in ragione dell’età, come realizzatosi nella direttiva 2000/78/CE, affermando che tale diritto non può esser limitato:
A) nè in considerazione dell'affidamento del datore di lavoro che si sia conformato al diritto nazionale;
B) nè per il fatto che i lavoratori discriminati per età possano ottenere il risarcimento del danno causato loro dalla trasposizione inesatta della direttiva 2000/78/CE nel diritto interno.   
Ebbene, il diritto soggettivo a non esser discriminati in ragione dell’età nemmeno per le dette due ragioni deve valere anche con riguardo alla questione dell'equiparazione retributiva tra ex IX qualifica funzionale e ruoli "ad esaurimento".          In particolare è importante l'affermazione (sopra sub A) che, anche nel nostro caso, deve escludersi che sul diritto dei lavoratori a non esser discriminati indirettamente per età, quanto a retribuzione, possa prevalere la tutela dell'affidamento del Ministero datore di lavoro, che ha erogato le retribuzioni conformandosi ai CCNL. Ciò significa che se pure fosse vero che l'art. 45 el d.lgs. 165/2001 debba essere interpretato comee l l'ha costantemente interpretato la giurisprudenza dominante (e sempre quella di Cassazione) ciònondimeno non deve risultarne ridotta la tutela che il diritto dell'Unione europea appresta al lavoratore discriminato indirettamente per età.       Altrimenti detto: non è decisivo stabilire se effettivamente l'art. 45 del d.lgs. 165/2001 ponga ai CCNL l'obbligo di relizzare una parità di trattamento tra impiegati pubblici che svlgono lo stesso lavoro o invece si rivolga solo ai datori di lavoro pubblici affinchè rispettino il principio di pari trattamento inteso come applicazione a tutti i lavoratori delle regole sul quantum di retribuzione indicate nei CCNL. Decisivo è, invece, stabilire se PUR RISPETTANDO LA NORMATIVA ITALIANA (di legge e di CCNL) ILMINISTERO DATORE DI LAVORO ABBIA LESO IL DIRITTO, COME DELINEATO DALLA DIRETTIVA 2000/78/CE, A NON ESSER DISCRIMINATI INDIRETTAMENTE PER ETA'.

Affermando, la irrilevanza (rispetto al diritto dei lavoratori a non esser discriminati in ragione dell'età, quanto a retribuzione) dell'affidamento del datore di lavoro che si sia conformato al diritto interno, la sentenza Dansk Industri completa la "risposta chiara" già data dalla giurisprudenza della Corte di giustizia su quale sia il contenuto del diritto risarcitorio dei lavoratori indirettamente discriminati (come categoria) in ragione dell'età.    Cioè, la sentenza Dansk Industri toglie ogni dubbio sul fatto che sia dovuto un risarcimento integrale nel senso che non si possa limitare il diritto risarcitorio dei lavoratori discriminati in malam partem ma gli si debba loro concedere retroattivamente un importo corrispondente alla differenza tra la retribuzione da essi percepita e la retribuzione concessa alla categoria privilegiata dei Direttori di Divisione e degli Ispettori Generali “ad esaurimento” (in linea con quanto fu sancito dalla sentenza Terhoeve (C-18/95) punto 57 e dalla sentenza Landtovà (C-399/09) punto 51, ed è stato confermato dalla sentenza Specht ai punti 87, 93, 95 e 96, nonchè dalla sentenza Unland ai punti da 67 e 68, e dalla sentenza Maria Auxiliadora Arjona Camacho).

Quanto alla sentenza PULIGIENICA FACILITY ESCO (del 5 aprile 2016):
Essa ha interpretato l’art. 267, comma 3, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e ci indica le conseguenze che una Sezione di giudice d'ultima istanza (quale è la Sezione Lavoro della Cassazione) deve trarre, anche d'ufficio, se condivide l’analisi delle predette sentenze della Corte di giustizia del 2014 e del 2015 e se condivide l'analisi della recentissima sentenza Dansk Industri (e cioè se ritiene che tali sentenze costituiscono una “risposta chiara” della Corte di giustizia alla questione interpretativa del diritto dell’Unione nel senso che la direttiva 2000/78/CE osta alla discriminazione retributiva dei funzionari dell'ex IX q.f.).

In particolare la sentenza Puligienica, chiarisce come la c.d. primazia del diritto dell'Unione imponga anche anche alla Sezione Lavoro della Cassazione, in quanto Sezione di giudice d'ultima istanza (anche d'ufficio e a prescindere dal "carattere chiuso" del giudizio di cassazione) di disapplicare direttamente, senza attivare le Sezioni Unite, ed anche contraddicendo i propri costanti prencedenti, la normativa interna che si ritenga fonte di discriminazione per come ritenuto dalla chiara giurisprudenza della Corte di giustizia (nel 2014: la sentenza Specht, la Schimitzer, la Vital Perez; nel 2015: la sentenza Starjakob, la Unland, la O contro Bio Philippe August SARL.         
In caso di dubbio, invece, la sentenza Puligienica impone di proporre questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia sull’interpretazione della direttiva 2000/78/CE, affinchè essa verifichi se la normativa di legge italiana (se interpretata come l'ha fino ad ora interpretata la Cassazione) e di CCNL:
1) ricada nella sfera d'applicazione della direttiva 2000/78/CE;
2) costituisca una misura discriminatoria fondata indirettamente sull'età;
3) possa esser considerata giustificata oppure no.

 

Sulla questione della equiparazione della retribuzione degli impiegati ministeriali dell'ex nona qualifica funzionale rispetto alla retribuzione dei loro colleghi "direttivi" dell' ex ruolo ad esaurimento (Direttori di Divisione e Ispettori Generali) è fissata al 5 maggio 2016 la discussione finale, in udienza pubblica, innanzi alla Sezione lavoro della Cassazione, di una causa promossa nel 2011 dall'Avvocatura dello Stato per impugnazione della sentenza della Corte d'appello di Roma n. 10311/2009. Stante la complessità della fattispecie è stata depositata, in vista dell'udienza, una ampia memoria a difesa del controricorrente Avv. Maurizio Perelli dalla quale, di seguito, traggo alcune considerazioni. Segnalo in particolare gli approfondimenti riguardanti la configurabilità di una discriminazione indiretta per età (esaminata anche alla luce di due recentissime sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea: la sentenza Puligienica Facility Esco spa (del 5/4/2016 in causa C-689/13) e la sentenza Dansk Industri (del 19/4/2016 in causa C-441/14) e la configurabilità di questioni di legittimità costituzionale ... CLICCA SU "LEGGI TUTTO"

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Ultimo aggiornamento Lunedì 02 Maggio 2016 17:35 Leggi tutto...
 

L'inizio della fine di tutte le giurisdizioni domestiche.

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Tra poco anche la giurisdizione domestica del CNF sarà travolta. Intanto ...

LEGGI DI SEGUITO L'ORDINANZA 91/2016 DELLA CORTE COSTITUZIONALE ...

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Solo l'abuso del diritto impedisce l'iscrizione come avvocato stabilito

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Con sentenza 4252 del 4/3/2016 le Sezioni Unite Civili della Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto: "in base alla normativa comunitaria volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale, il soggetto munito di un titolo equivalente a quello di avvocato conseguito in un Paese membro dell’Unione europea, qualora voglia esercitare la professione in Italia, può chiedere l’iscrizione nella sezione speciale dell’albo degli avvocati del foro nel quale intendere eleggere domicilio professionale in Italia. L’iscrizione è subordinata al possesso dei requisiti di cui all’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 96 del 2001 e in sede di iscrizione il Consiglio dell’ordine degli avvocati non può opporre la mancanza di diversi requisiti – segnatamente quello della condotta specchiatissima e illibata (art. 17 r.d.l. n. 1578 del 1933), ovvero, oggi, della condotta irreprensibile (art. 17 della legge n. 247 del 2012) – prescritti dall’ordinamento forense nazionale, salvo il caso in cui la condotta del richiedente possa essere qualificata come abuso del diritto".

LEGGI DI SEGUITO LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE N. 4252 DEL 4/3/2016 ...

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 06 Aprile 2016 09:10 Leggi tutto...
 

TAR Lazio 3989 dell'1/4/2016 su incompatibilità e conflitti di interessi per il mediatore avvocato

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Il Tar Lazio, Sez. I (pres. Volpe, rel. Correale), sentenza n. 3989 del 1° aprile 2016, ha stabilito che l’art. 14 bis d.m. n. 180/2010 è illegittimo per eccesso di potere.

L'accoglimento del ricorso al TAR comporta:

1) l’espunzione dell’intero art. 14 bis dal testo del d.m. n. 180/2010;

2) l’annullamento, per illegittimità derivata, della circolare ministeriale 14 luglio 2015, avente ad oggetto “incompatibilità e conflitti di interesse mediatore e avvocato” emanata dal Dipartimento per gli affari di giustizia – Ufficio III – Reparto mediazione a firma del Direttore Generale della giustizia civile.

Il TAR Lazio ha ritenuto stridente col contesto normativo la disposizione contestata, di cui all’art. 14 bis, del d.m. 180/2010 (come introdotto dall’art. 6, comma 1, d.m. 4.8.2014, n. 139) che si occupa direttamente dell’incompatibilità e dei conflitti di interesse del singolo mediatore e per la quale: Il mediatore non può essere parte ovvero rappresentare o in ogni modo assistere parti in procedure di mediazione dinanzi all’organismo presso cui è iscritto o relativamente al quale è socio o riveste una carica a qualsiasi titolo; il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino la professione negli stessi locali. Non può assumere la funzione di mediatore colui il quale ha in corso ovvero ha avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti, o quando una delle parti è assistita o è stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che ha esercitato la professione negli stessi locali; in ogni caso costituisce condizione ostativa all’assunzione dell’incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all’articolo 815, primo comma, numeri da 2 a 6, del codice di procedura civile. Chi ha svolto l’incarico di mediatore non può intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non sono decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento. Il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitano negli stessi locali”.

La sentenza n. 3989/2016 riconosce che la normativa primaria non ha riservato alla decretazione regolamentare ministeriale alcun margine per intervenire sui temi dell’incompatibilità e del conflitto di interessi del singolo mediatore, al fine poi di estenderli anche a soci, associati e professionisti esercenti attività professionale nei medesimi locali. Fondamentali appaiono le seguenti consoderazioni della sentenza 3989/2016:

"Sotto il profilo, formale, basti richiamare l’art. 17, comma 3, l. n. 400/1988, secondo il quale “Con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenza del ministro o di autorità sottordinate al ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere. Tali regolamenti, per materie di competenza di più ministri, possono essere adottati con decreti interministeriali, ferma restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge…”

 

Sul punto è stato già chiarito che, almeno per quel che riguarda i “regolamenti” di cui al richiamato art. 17, comma 3, l. cit., è sempre necessaria un’espressa previsione di legge che legittimi l’attuazione, e quindi l’estensione, della potestà regolamentare in questione (per tutte: Cons. Stato, Sez. III, 25.5.11, n. 3144). Nel caso di specie tale espressa previsione di legge è assente.

 

Sotto il profilo sostanziale, non può farsi a meno di ricordare che lo stesso Consiglio di Stato, in sede di pronuncia del necessario parere sul testo del d.m. impugnato, aveva chiaramente espresso la riserva in ordine alla collocazione dei commi 1 e 3 dell’art. 14 bis del testo al suo esame, “…trattandosi di questione che può presentare interconnessioni con l’ordinamento forense, come tale necessitante – semmai – di apposita previsione in altra iniziativa normativa”.

 

Tali ultime osservazioni – ad avviso del Collegio – rimarcano anche la fondatezza di quanto lamentato dai ricorrenti con il secondo motivo di ricorso.

 

Si evidenzia, infatti, che l’art. 84, comma 1, lett. o), d.l. n. 69/13, conv. in l. n. 98/13, ha inserito nel testo dell’art. 16 del d.lgs. n. 20/2010 il comma 4 bis, secondo il quale “Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori”.

 

Il richiamo alla qualifica assunta “di diritto”, secondo la norma primaria come innovata, ad avviso del Collegio evidenzia la peculiarità della figura dell’avvocato-mediatore, che dà luogo ad una inscindibilità di posizione laddove un avvocato scelga di dedicarsi (anche) alla mediazione.

 

Ne consegue che il decreto ministeriale in esame non ha tenuto conto della peculiare disciplina che regola la professione forense, di cui alla l. 31.12.2012, n. 247 e allo specifico codice deontologico vigente, pubblicato sulla G.U. del 16.10.2014, il cui art. 62 prevede esplicitamente la regolamentazione della funzione di mediatore per colui che è avvocato.

 

In merito, infatti, si evidenzia che l’art. 3, commi 3 e 4, l. n. 247/12 cit. prevede che “L'avvocato esercita la professione uniformandosi ai principi contenuti nel codice deontologico emanato dal CNF ai sensi degli articoli 35, comma 1, lettera d), e 65, comma 5. Il codice deontologico stabilisce le norme di comportamento che l'avvocato è tenuto ad osservare in via generale e, specificamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti. Il codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall'osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l'espressa indicazione della sanzione applicabile. 4. Il codice deontologico di cui al comma 3 e i suoi aggiornamenti sono pubblicati e resi accessibili a chiunque…”.

 

Il Collegio ritiene che se il legislatore, con norma primaria (art. 16, comma 4 bis, d.lgs. n. 28/2010), ha ritenuto di individuare la sola figura dell’avvocato quale mediatore “di diritto”, ne consegue che, vista l’inscindibilità tra le due qualifiche, doveva considerarsi la vigenza e immediata applicabilità dell’altra normativa primaria che già si occupava di regolare le funzioni di mediatore, sia pure attraverso il richiamo “mobile” al contenuto del codice deontologico.

 

Con l’introduzione dell’esteso e generalizzato regime di incompatibilità di cui all’art. 14 bis d.m. n. 139/14, peraltro – come visto – senza specifica “copertura legislativa”, si è invece dato luogo ad una commistione di incompatibilità e conflitti di interessi cui devono sottostare gli “avvocati-mediatori” che non aveva ragione di essere e che meritava, eventualmente, pari sede legislativa primaria, come d’altronde subito osservato dal Consiglio di Stato.

 

In sostanza, il Collegio osserva che poteva in ipotesi darsi luogo a una sola alternativa: o la disciplina regolamentare generale riguardante (tutti) i mediatori – ferma restando l’osservazione sulla carenza di delega legislativa – faceva salve le disposizioni già adottate per coloro che erano ritenuti da fonte primaria mediatori “di diritto” (vale a dire gli avvocati) ovvero doveva darsi luogo ad una iniziativa legislativa di pari rango primario, qualora le vigenti disposizioni di cui all’art. 62 del Codice deontologico non fossero state ritenute valide e condivisibili alla luce di esperienze maturate nel frattempo. Tali ipotesi alternative sono state entrambe disattese e, per tale ragione, il ricorso si palesa fondato anche sotto tale ulteriore profilo.

 

Da ultimo, per mero tuziorismo, il Collegio osserva che la decretazione ministeriale non pare che abbia colto appieno l’estrema, variegata composizione degli studi legali professionali sparsi sul territorio e il rapporto numerico con gli organismi di mediazione in ciascun distretto di Tribunale.

 

Non pare essersi tenuto conto, vale a dire, che in alcune parti del territorio nazionale, in special modo nelle città metropolitane, l’organizzazione professionale pare andare verso una composizione orientata su studi professionali “complessi”, spesso interdisciplinari, e con un numero sostanzioso di organismi di mediazione sul territorio, così che non pare irreversibile sulla scelta di effettuare anche la mediazione il mutamento di un organismo di appartenenza per il singolo legale. Vi sono però in altre zone del territorio organizzazioni più “semplici” e capillari”, ove l’avvocato, da solo e in locali da lui unicamente detenuti, esercita sia in campo penale che civile che tributario e/o amministrativo, con uno e massimo due organismi di mediazione di riferimento, così che le disposizioni di cui all’art. 14 bis in esame lo costringerebbero a rinunciare inevitabilmente alla mediazione.

 

Così pure non trascurabili sono le osservazioni secondo le quali ben potrebbe una parte scegliere un organismo di mediazione specifico, ove è iscritto un legale di fiducia di controparte, al solo fine di impedire l’assistenza nell’affare. Ciò evidentemente stride con la libertà di scelta del mediatore che è alla base della normativa dell’intero d.lgs. n. 28/2010.

 

Ebbene se non può dimenticarsi che le caratteristiche del regolamento di cui all’art. 17 l. n 400/88 cit., secondo la giurisprudenza, esprimono una potestà normativa “secondaria” attribuita all'Amministrazione al fine di disciplinare, in astratto, tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico esistente, con precetti che presentano appunto i caratteri della “generalità e dell'astrattezza”, intesi essenzialmente come ripetibilità nel tempo dell'applicazione delle norme e non determinabilità dei soggetti cui si riferiscono (per tutte: Cons. Stato, Sez. VI, 18.2.15, n. 823), nel caso di specie tale caratteristiche sembrano smarrite, in quanto la generalità dell’applicazione dell’art. 14 bis va a collidere con la determinabilità dei soggetti più considerati, che sembrano – stante l’impostazione della norma regolamentare in questione - i soli “avvocati-mediatori”. Anche sotto tale profilo, quindi, si palesa la violazione dell’art. 17 cit.

 

A conclusione contraria non portano, poi, le tesi espresse nelle difese erariali.

 

Sostengono quest’ultime che lo scopo dell’art. 14 bis cit. è quello di assicurare che l’attività di mediazione sia svolta da un soggetto che offra garanzie di indipendenza e terzietà.

 

Sul punto, però, non può che richiamarsi nuovamente il contenuto dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 28/2010 cit. che demanda al regolamento dell’organismo scelto dalle parti - e non a regolamento ministeriale ex art. 17, comma 3, l. cit. - la garanzia di nomina di un mediatore che assicuri imparzialità e idoneità allo svolgimento dell’incarico. In merito basti osservare che il Ministero della Giustizia, quale organo vigilante, dispone di tutti gli strumenti per verificare il contenuto dei singoli regolamenti degli organismi e chiederne l’eventuale modifica, soprattutto laddove si rinvengano anomalie riguardo lo svolgimento dell’attività da parte di “avvocati-mediatori”.

 

Sostiene la difesa erariale, altresì, che l’impianto dell’art. 16 d. lgs. n. 28/2010 consentirebbe l’emanazione di “appositi decreti ministeriali” concernenti la nomina e i requisiti che il mediatore deve possedere, tra i quali quelli dell’imparzialità e terzietà.

 

In realtà, il Collegio osserva che il comma 2 dell’art. 16 in questione non prevede l’emanazione di appositi decreti ministeriali ma si limita – come già sopra riportato – a prevedere che “La formazione del registro e la sua revisione, l'iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l'istituzione di separate sezioni del registro per la trattazione degli affari che richiedono specifiche competenze anche in materia di consumo e internazionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti agli organismi sono disciplinati con appositi decreti del Ministro della giustizia, di concerto, relativamente alla materia del consumo, con il Ministro dello sviluppo economico.”. Non vi è dunque alcun accenno alla nomina e ai requisiti del mediatore. Anzi, come pure sopra evidenziato, i successivi commi dell’art. 16 ribadiscono la vigilanza del Ministero della Giustizia e la qualità di mediatori “di diritto” degli avvocati, con tutte le conseguenze, dirette e indirette, sopra rappresentate, cui si rimanda. Ciò assume connotazione logica secondo quanto riconosciuto dalle stesse difese erariali, laddove richiamano l’art. 3 d.lgs. n. 28/2010 che, appunto, rimette agli organismi di disciplinare con regolamento le modalità di nomina del mediatore che ne garantiscano l’imparzialità e l’idoneità. Non avrebbe alcun senso condivisibile, quindi, una previsione normativa che dapprima demanda ai regolamenti degli organismi di occuparsi delle modalità di nomina dei mediatori al fine di garantirne (anche) l’imparzialità e poi demanda a decreto ministeriale la stessa materia.

 

Né si comprende poi in cosa consista la differenza tra “imparzialità” e “incompatibilità e conflitto di interessi”, che l’Avvocatura evidenzia, laddove la prima non può che comprendere le altre due, costituendone presupposto.

 

Sostiene l’Amministrazione che ad ulteriore dimostrazione della competenza del d.m. a disciplinare la materia dell’incompatibilità dovrebbe leggersi la disposizione del richiamato art. 16, comma 2, secondo la quale: “Fino all'adozione di tali decreti si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dei decreti del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223...”.

 

Ebbene, la lettura di tali decreti convince del contrario, in quanto l’art. 7 del d.m. n. 222/04, occupandosi del regolamento di procedura, prevede(va) appunto che: “Il regolamento stabilisce le cause di incompatibilità allo svolgimento dell'incarico…” mentre il d.m. n. 223/04 si limitava ad occuparsi delle indennità.

 

Secondo la difesa erariale il testo dell’art. 38 del d.lgs. n. 5 del 2003, che costituiva la base normativa del d.m. n. 222 cit., aveva lo stesso contenuto dell’art. 16 d.lgs. n. 28/2010 e nessuno aveva mai dubitato della legittimità delle ipotesi di incompatibilità previste da tale d.m.

 

Il Collegio non può che osservare come il richiamato art. 38, ben più sintetico dell’art. 16 d.lgs. 28/2010, non conteneva alcuna delega alla potestà regolamentare ministeriale in ordine all’individuazione di requisiti di imparzialità del singolo mediatore - e quindi di incompatibilità e conflitto di interessi – ma si limitava, al comma 2, a prevedere che: “Il Ministro della giustizia determina i criteri e le modalità di iscrizione nel registro di cui al comma 1, con regolamento da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Con lo stesso decreto sono disciplinate altresì la formazione dell'elenco e la sua revisione, l'iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti…”.

 

E’ facile convenire che “nessuno ha mai dubitato della legittimità delle ipotesi di incompatibilità previste da tale DM”, ma perché in tale decreto non vi erano regolate ipotesi di incompatibilità, come invece contenute nell’art. 14 bis impugnato in questa sede, facendosi rimando sul punto ai regolamenti dei singoli organismi.

 

Infine, che la norma contestata sia rivolta a tutti i mediatori e non solo agli avvocati non legittima la deroga ai limiti di cui all’art. 17, comma 3, l. n. 400/88 ma evidenzia, proprio per la sua generalità e astrattezza, l’illogicità di conseguenze specifiche nei confronti della specifica categoria in questione, qualificata da norma primaria mediatore “di diritto”, laddove sussistono già le regolamentazioni dei singoli organismi di mediazione e quella di cui all’art. 62 del codice deontologico, che comunque l’avvocato è tenuto ad osservare.

 

Alla luce di quanto illustrato, quindi, il ricorso deve trovare accoglimento per le deduzioni di cui ai primi due motivi di ricorso, con assorbimento delle altre censure, comportando l’accoglimento del gravame e comunque l’espunzione dell’intero art. 14 bis dal testo del d.m. n. 180/2010.

 

La fondatezza del ricorso introduttivo comporta, poi, anche l’annullamento dell’impugnata circolare ministeriale di cui ai motivi aggiunti, per illegittimità derivata."

 

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Ultimo aggiornamento Martedì 05 Aprile 2016 09:17
 

Consiglio di Stato n. 1164/2016: il Consiglio nazionale forense è anche "associazione di imprese"

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Caduta la maschera del Consiglio Nazionale Forense: si apre (finalmente) la caccia !

D'ora in poi dimostrare che il Consiglio Nazionale Forense, agendo come associazione di imprese, abbia adottato una "decisione" lesiva della concorrenza potrà essere fonte di gravissime sanzioni per il CNF stesso. E c'è da scommettere che l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato non mancherà di irrogarle. Inoltre, a breve, con l'entrata in vigore della direttiva 2014/104/UE (c.d. private enforcement) si aprirà la strada alle richieste di risarcimenti di privati per le dette condotte lesive della concorrenza. Tanti saranno, prevedo, gli avvocati che chiederanno risarcimenti al CNF (magari per come ha scritto le regole deontologiche).

PAGHERANNO TUTTI GLI AVVOCATI ISCRITTI AGLI ALBI, CON I LORO CONTRIBUTI DI ISCRIZIONE (e non potranno lamentarsi, visto che i membri del CNF se li sono scelti loro).

Il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza 22 marzo 2016, n. 1164, ha statuito che il Consiglio nazionale forense non è solo un ente pubblico non economico: è anche associazione di imprese che, in quanto tale, risponde per aver adottato "decisioni" lesive della concorrenza.

NON BASTAVA CHE IL CNF FOSSE GIUDICE, AMMINISTRATORE, LEGISLATORE DI SETTORE ... ADESSO LO SI DOVRA' DEFINIRE ANCHE IMPRENDITORE ! SECONDO ME NON PUO' FARE TUTTE QUESTE COSE.

Mi domando quando i giudici amministrativi e la Corte costituzionale riconosceranno espressamente l'incidenza anticoncorrenziale dell'esercizio delle pubbliche funzioni giurisdizionali dell'ordine (scriveva il Consiglio di Stato, sez. I, nel parere 27 dicembre 2010, n. 5679/10 che l'ordine "nei procedimenti disciplinari, valuta casi concreti e non pone atti aventi effetti generali sui mercati, valutabili alla stregua  d'intese restrittive della concorrenza").

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO N. 1164/2016 (in neretto i passaggi salienti) ...

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Ultimo aggiornamento Martedì 31 Maggio 2016 14:08 Leggi tutto...
 

L'abogado che esercita dichiarandosi avvocato non è esonerato dalla prova attitudinale

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L'hanno stabilito le SS.UU. Civili della Cassazione, con sentenza n. 5073 depositata il 15/3/2016.

Vi si legge che l'avvocato stabilito che abbia acquisito la qualifica professionale in altro Stato membro dell'Unione europea, può ottenere la dispensa dalla prova attitudinale di cui all'art. 8 del d.lgs. 27/1/1992, n. 115, se abbia esercitato in Italia in modo effettivo e regolare la professione con il titolo professionale di origine per almeno tre anni, a decorrere dalla data di iscrizione nella sezione speciale dell'albo degli avvocati. Tale presupposto non è integrato ove l'avvocato stabilito abbia esercitato la professione, seppur in buona fede, con il titolo di avvocato invece che con il titolo professionale di origine.

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 16 Marzo 2016 12:48
 

Quando l'avvocato può essere revocato dalle sue funzioni di giudice di pace ?

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Lo chiarisce la sentenza del TAR Lazio n. 2499/2016.

Il ricorrente ha reclamato la condanna del resistente Ministero della giustizia al risarcimento dei danni morali per i dispiaceri e le sofferenze e dei danni non patrimoniali per la lesione della dignità, dell’onore e del prestigio professionale, subiti dal medesimo a causa dell’illegittimo provvedimento di revoca dall’incarico di giudice onorario aggregato.

Il ricorrente medesimo, mentre svolgeva le funzioni di giudice di pace aggregato presso il Tribunale di Bergamo, è stato destinatario di un provvedimento adottato dal Ministro di giustizia, su deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura, recante la revoca dall’incarico in quanto considerato responsabile di una mancata astensione e per avere incardinato ricorsi in qualità di avvocato nel medesimo circondario ove esercitava la funzione giudicante, condotte, queste, dedotte da risultanze istruttorie ritenute univoche e valutate come lesive del prestigio dell’ordine giudiziario.

LEGGI LA SENTENZA DEL TAR LAZIO 2499 DEL 2016 CLICCANDO SU "LEGGI TUTTO" ...

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Ultimo aggiornamento Venerdì 04 Marzo 2016 10:15 Leggi tutto...
 

Maximulta al Consiglio Nazionale Forense dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato

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PAGA LA CORPORAZIONE NEL SUO INSIEME, QUELLA STESSA CHE TROVA NEL C.N.F. IL SUO RAPPRESENTANTE MASSIMO (LEGISLATORE DI SETTORE, AMMINISTRATORE E GIUDICE).

Chi è causa del suo mal pianga se stesso !!!!!!

E' quasi di un milione di euro la sanzione irrogata dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato al Consiglio Nazionale Forense (provvedimento 25868 del 10/2/2016) per non aver revocato il contenuto del suo precedente parere n. 48/2012, già ritenuto limitativo della libertà degli avvocati nella determinazione della propria condotta sul mercato. L'Antitrust ha ritenuto che con delibera del 23/10/2015 il CNF avrebbe sostanzialmente ribadito i principi informatori un suo precedente parere n. 48/2012.

In particolare l'Antitrust ha deliberato:
"a) che il comportamento del Consiglio Nazionale Forense, consistente nel non avere posto termine all’infrazione dell’art. 101 del TFUE accertata con riferimento al parere n. 48/2012, integra la violazione di cui all’articolo 15, comma 2, della legge n. 287/90 per inottemperanza al provvedimento n. 25154 del 22 ottobre 2014;
b) che, per tale comportamento, venga comminata al Consiglio Nazionale Forense una sanzione amministrativa pecuniaria di 912.536,40 € (novecentododicimilacinquecentotrentasei euro e quaranta centesimi)."

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 02 Marzo 2016 16:48
 

Gli ordini professionali sono autoreferenziali perchè i loro iscritti sono buoni

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Si legge in sentenza n. 3194/2016 della seconda sezione civile della Cassazione, depositata il 18/2/2016 : "In relazione ai compensi ed alle voci di spesa indicate in parcella è noto l'orientamento di questa corte che attribuisce valore di prova alla parcella redatta unilateralmente dal professionista in assenza di specifiche contestazioni del cliente; la stessa deve infatti ritenersi assistita da una presunzione di veridicità, pochè l'iscrizione all'albo del professionista è una garanzia della sua personalità (v. Cass. SS.UU. n. 14699/2010)."

NO COMMENT !!!!

 

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 24 Febbraio 2016 17:26
 

Responsabile lo Stato per danni arrecati a singoli da giudici di ultimo grado violando diritto U.E.

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La Corte di giustizia dell'Unione Europea (Terza Sezione), con sentenza del 24/11/2011, decidendo un ricorso per inadempimento, proposto dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 258 TFUE,  dichiarò e statuì:

1)      La Repubblica italiana,
–        escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e
–        limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave,

ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.

2)      La Repubblica italiana è condannata alle spese.

LEGGI DI SEGUITO LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA NELLA CAUSA C-379/10 ...

 

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 24 Febbraio 2016 17:28 Leggi tutto...
 

La Corte di Giustizia definisce la terzietà del giudice. Ce l'ha il Consiglio Nazionale Forense?

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Dalla newsletter del Consiglio Nazionale Forense del 25/2/2016:

"CNF: la funzione consultiva non ne compromette la terzietà in sede giurisdizionale

MIO COMMENTO:

Importante è la sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) 19 dicembre 2012, resa nella causa C‑363/11, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE.
«Rinvio pregiudiziale – Nozione di “organo giurisdizionale di uno degli Stati membri” ai sensi dell’articolo 267 TFUE – Procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale – Corte dei conti nazionale che decide sull’autorizzazione preventiva di una spesa pubblica – Irricevibilità»
Vi si legge:

"17      Pertanto, occorre verificare se, nel contesto che ha dato luogo alla presente domanda di pronuncia pregiudiziale, l’Elegktiko Synedrio costituisca un organo giurisdizionale ai sensi dell’articolo 267 TFUE e se, di conseguenza, sia legittimato a proporre una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte.
18      Secondo una giurisprudenza costante, per valutare se l’organo remittente possiede le caratteristiche di un «organo giurisdizionale» ai sensi dell’articolo 267 TFUE, questione unicamente di diritto dell’Unione, la Corte tiene conto di un insieme di elementi, quali l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente (v., in particolare, sentenze del 17 settembre 1997, Dorsch Consult, C‑54/96, Racc. pag. I‑4961, punto 23; del 31 maggio 2005, Syfait e a., C‑53/03, Racc. pag. I‑4609, punto 29, e del 14 giugno 2007, Häupl, C‑246/05, Racc. pag. I‑4673, punto 16, nonché ordinanza del 14 maggio 2008, Pilato, C‑109/07, Racc. pag. I‑3503, punto 22).
19      Inoltre, i giudici nazionali possono adire la Corte unicamente se dinanzi ad essi sia pendente una lite e se siano stati chiamati a statuire nell’ambito di un procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale (v., in particolare, sentenze del 12 novembre 1998, Victoria Film, C‑134/97, Racc. pag. I‑7023, punto 14; del 30 novembre 2000, Österreichischer Gewerkschaftsbund, C‑195/98, Racc. pag. I‑10497, punto 25, e Syfait e a., cit., punto 35).
20      Peraltro, conformemente alla costante giurisprudenza, la nozione di indipendenza, intrinseca alla funzione giurisdizionale, implica innanzi tutto che l’organo interessato si trovi in posizione di terzietà rispetto all’autorità che ha adottato la decisione oggetto del ricorso (sentenze del 30 marzo 1993, Corbiau, C‑24/92, Racc. pag. I‑1277, punto 15, e del 19 settembre 2006, Wilson, C‑506/04, Racc. pag. I‑8613, punto 49).
21      Infine, è opportuno accertare la legittimazione di un organo ad adire la Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, secondo criteri sia strutturali che funzionali. A questo proposito, un organismo nazionale può essere qualificato «organo giurisdizionale» ai sensi del suddetto articolo quando esercita funzioni giurisdizionali, mentre, nell’esercizio di altre funzioni, in particolare di natura amministrativa, tale qualifica non può essergli riconosciuta (v., a proposito della Corte dei conti italiana, ordinanze del 26 novembre 1999, ANAS, C‑192/98, Racc. pag. I‑8583, punto 22, e RAI, C‑440/98, Racc. pag. I‑8597, punto 13). L’autorità dinanzi alla quale viene proposto un ricorso avverso una decisione adottata dai servizi di un’amministrazione non può essere considerata in posizione di terzietà rispetto a tali servizi, e dunque un organo giurisdizionale ai sensi dell’articolo 267 TFUE, quando presenta un rapporto organico con la detta amministrazione (v., in tal senso, sentenze Corbiau, cit., punto 16, e del 30 maggio 2002, Schmid, C‑516/99, Racc. pag. I‑4573, punto 37).
22      Nel caso di specie, emerge innanzitutto dalla pronuncia di rinvio che l’Elegktiko Synedrio è stato adito per decidere una controversia, nata nell’ambito del controllo preventivo della spesa pubblica, tra il commissario dell’Elegktiko Synedrio presso il Ministero della Cultura e del Turismo, da un lato, e il servizio contabile dello stesso Ministero, dall’altro.
23      A questo proposito, emerge dal fascicolo che il commissario dell’Elegktiko Synedrio è un membro dell’Elegktiko Synedrio che siede, come risulta dall’articolo 19, paragrafo 1, del decreto presidenziale, presso ciascun ministero per esercitare un controllo preventivo degli ordini di spesa effettuati dal ministero interessato. La controversia in questione nasce dal rifiuto del commissario dell’Elegktiko Synedrio presso il Ministero della Cultura e del Turismo di approvare la spesa corrispondente alla retribuzione di un dipendente con contratto a tempo determinato per le ore utilizzate a seguito di un permesso sindacale. Tale rifiuto è stato opposto all’autorità che aveva introdotto inizialmente la domanda di pagamento, che è, nel caso di specie, il servizio di controllo contabile dello stesso Ministero. Tuttavia, tale servizio ha introdotto una nuova domanda di pagamento, allo stesso titolo della precedente. È in questo contesto che, in applicazione dell’articolo 21, paragrafo 1, del decreto presidenziale, il suddetto commissario, persistendo nel proprio rifiuto, ha trasmesso il suo «parere negativo» all’Elegktiko Synedrio, provocando in tal modo l’intervento di quest’ultimo al fine di decidere su tale parere.
24      Da quanto precede discende che l’Elegktiko Synedrio intrattiene con il proprio commissario che siede presso il Ministero della Cultura e del Turismo, dal quale proviene il parere negativo oggetto della controversia dinanzi ad esso, un rapporto organico e funzionale evidente, che osta al riconoscimento della sua qualità di terzo rispetto al suddetto commissario (v., per analogia, sentenze citate Corbiau, punto 16, e Schmid, punto 38).
25      Pertanto, quando si pronuncia sul «parere negativo» formulato dal proprio commissario, l’Elegktiko Synedrio non ha la qualità di terzo rispetto agli interessi in gioco e, pertanto, non possiede l’imparzialità richiesta rispetto al beneficiario della spesa in questione, nel caso di specie il sig. Antonopoulos (v., per analogia, sentenza del 22 dicembre 2010, RTL Belgium, C‑517/09, Racc. pag. I‑14093, punto 47).
"

 

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Ultimo aggiornamento Giovedì 25 Febbraio 2016 10:36
 

Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ad opera del giudice di ultima istanza

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Sul sito www.europeanrights.eu , newsletter n. 39 del 15/7/2013, trovi un interessante articolo di Roberto Conti intitolato "Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Dalla pratica alla teoria".
Questo l'indice:
1. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: a) l’oggetto.
2. Segue: b) se”, “quando” e “come” attivare il rinvio pregiudiziale. Le note informative e le Raccomandazioni della Corte di Giustizia rivolte ai giudici nazionali.
3. Gli effetti delle pronunzie rese dalla Corte di Giustizia. Efficacia endoprocessuale ed extraprocessuale.
3.1 Sui rapporti fra sentenza interpretativa e diritto nazionale.
3.2 Ancora a proposito dei ruoli fra giudice nazionale e giudice interno:alla ricerca della ratio decidendi delle sentenze della Corte di Giustizia: il ricorso al metodo del distinguishing.
4. I dubbi del Consiglio di Stato –Cons.Stato 5 marzo 2012 n.1244(ord.)- sul rinvio pregiudiziale alla Corte UE del giudice di ultima istanza.
4.1 Il r